Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

Incipit
Prefazione di Piero Grasso: “Veramente piacevole la lettura di questo libro che nasce dall’idea di raccontare la mafia attraverso il filo rosso della pazzia e, più in generale, della malattia, strumentalizzate dai mafiosi per sottrarsi alle proprie responsabilità o per far apparire inaffidabili i loro accusatori.
L’uso della follia e dei manicomi è storia antica in Cosa Nostra, ma la prima volta che mi ci imbattei fu all’inizio degli anni Ottanta, quando ero già da circa dieci anni sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Palermo. Una pattuglia dei carabinieri arrestò in flagrante il killer di un uomo ucciso dentro una cabina telefonica. Si trattava di un ragazzo di diciannove anni, Agostino Badalamenti: aveva tentato di fuggire a bordo di una moto ma era stato catturato con l’arma del delitto, una pistola 357 magnum, ancora in pugno. È stato il primo e forse rimarrà il solo killer di Cosa Nostra catturato
sul luogo del delitto. I vertici dell’organizzazione si adoperarono immediatamente per farlo passare per pazzo”.

Introduzione
“Impazzisce Cosa Nostra. È solo simulazione, però. Perché la follia ai mafiosi non piace. Serve soltanto per screditare i collaboratori di giustizia o per ottenere benefici processuali. Altrimenti va tenuta a distanza, perché il mafioso non può permettersi di sembrare pazzo.
Deve apparire una persona seria, lui. Deve trasmettere sicurezza, avere la testa sulle spalle, il pieno controllo delle situazioni e di se stesso. E soprattutto deve parlare poco. L’uomo d’onore deve rispettare la consegna del silenzio. La loquacità, per lui, è un disvalore. Il suo è un mondo in cui la categoria del
piacere non esiste, un mondo intriso di paranoia in cui tutto è controllato, anche la «presentazione» di un mafioso a un altro. Un mondo fondamentalista – i giudici e gli psicologi lo dicono con parole differenti, ma la sostanza è la stessa – da cui, quando si entra, non si esce più. Un mondo che non consente di avere una propria identità, ma lascia spazio solo a emozioni primitive: paura, odio, onnipotenza e sete di potere”.

Tutti matti i boss mafiosi quando vengono rinviati a giudizio? Nulla come l’incapacità di intendere e di volere totale, parziale, permanente, transitoria, intermittente, temporanea eccetera è d’aiuto per sfuggire alle patrie galere, soprattutto alla tanto temuta condanna al 41bis. Ma non è certo l’invenzione recente di un brillante leguleio. Ci aveva già pensato cento anni fa il grande Luigi Pirandello, premio Nobel per la letteratura nel 1934, a buttare lì l’idea, che avrebbe fatti scuola: quella della pazzia ‘per convenienza’. In una delle sue commedie più celebri, Il berretto a sonagli, spiega come si possano evitare le tragiche conseguenze del proprio agire facendosi passare per pazzi.
Malattie fisiche e turbe mentali più o meno gravi sono epidemiche fra i mafiosi. Ma si tratta sempre di patologie transitorie perché il codice d'onore di Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta eccetera non ammette alcuna forma di follia. Cosa Nostra, giusto per fare un esempio, prescrive per i ‘cristiani battezzati’, cioè per coloro che sono stati affiliati con tanto di puntura del dito e santino bruciato, comportamenti lucidi e controllati nella vita privata come in quella pubblica. Per un mafioso, soprattutto di alto rango, la pazzia è un insulto da lavare col sangue, è un’arma per delegittimare un pentito oppure per distruggere socialmente prima ancora che fisicamente qualcuno diventato troppo scomodo. Dunque, ‘mafioso pazzo’ è un ossimoro.
Il fenomeno mafioso, soprattutto negli ultimi decenni, è stato studiato e analizzato in ogni risvolto. Eppure, sulla follia certificata degli affiliati (e anche dei criminali comuni!) che, in quanto affiliati, non potrebbero assolutamente essere folli, non si è mai voluto andare a fondo. Si sa che è un efficace escamotage per scansare la galera passando qualche mese in casa di cura o agli arresti domiciliari. Galera che, nel caso dei mafiosi condannati in base al 416bis, significherebbe carcere duro per l’applicazione del comma 41bis.
Tutti parlano di lotta alla mafia, eppure questo eccesso di garantismo, che favorisce il crimine perché cancella la deterrenza costituita dal carcere duro, essendo il 41bis il vero spauracchio per i boss, viene allegramente accettato da tutti, avvocati, magistrati e società civile, come un male inevitabile.
Per fortuna dove non arrivano i giuristi e i magistrati si spingono i giornalisti, gli scrittori e i criminologi.
Questo libro, che si legge d’un soffio grazie allo stile gradevole e semplice, scritto a quattro mani dallo psichiatra criminologo Corrado De Rosa e dalla giornalista Laura Galesi, affronta il problema nella sua complessità risultando, con le molte storie di ipergarantismo ipocrita, un’accusa aperta a chi consente una simile mostruosità. Anzitutto punta il dito contro i medici che certificano stati di pazzia ondivaghi mostrandosi, in questo,  compiacenti fino alla contiguità con i mafiosi. Poi contro certi giudici che quando si tratta di giudicare i boss scelgono troppo spesso la strada comoda dell’infermità mentale. Infine, anche se più indirettamente, contro un parlamento che ha approvato mostruosità giuridiche, ovvero disegni di legge presentati da avvocati penalisti che rivestivano il doppio ruolo di difensori dei boss e di parlamentari.

Corrado De Rosa, Laura Galesi

MAFIA DA LEGARE. Pazzi sanguinari, matti per convenienza, finte perizie, vere malattie: come Cosa Nostra usa la follia

Sperling & Kupfer, 266 pagine, 15.30 euro anziché 18.00 su internetbookshop

Incipit
Prefazione di Piercamillo Davigo: “Sono passati vent’anni da quando, il 17 febbraio 1992, a Milano fu arrestato Mario Chiesa, fatto che è stato considerato l’inizio di quelle indagini che i mezzi di informazione hanno chiamato «Mani pulite». Quella non era la prima volta in cui un pubblico amministratore veniva sorpreso in flagranza di corruzione, e non fu l’ultima. Per quale ragione, vent’anni dopo, quell’accadimento viene ancora ricordato, tanto da portare alla seconda edizione di un volume che ricostruisce quella vicenda e quelle che seguirono?
Credo che la spiegazione sia da ricercare nel sorprendente (anche per gli inquirenti) sviluppo delle indagini, innescate da quell’episodio, che in un tempo relativamente breve (specie se rapportato ai tempi dell’amministrazione giudiziaria) portò alla scoperta di un numero impressionante di reati e al coinvolgimento di migliaia di politici, funzionari e imprenditori. Che cosa aveva fatto la differenza fra quelle indagini rispetto ad altre, precedenti e successive?”

Prologo: “Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni politiche: sogna di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano.
Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare al presidente 14 milioni di lire, la tangente pattuita su un appalto da 140.
Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A dir la verità – ricorderà Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.»
Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo, quasi si scontra con un carabiniere in borghese.
Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»), una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capisce
di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No, ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto. Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore”.

Come sia iniziata la stagione delle grandi pulizie in Casa Italia lo sanno tutti. Il Mariuolo del Trivulzio chiede una tangente troppo alta a Luca Magni, titolare di una piccola impresa di pulizie. Il 10% sull’ammontare dell’appalto, figuriamoci! L’imprenditore non ce la fa a mettere insieme i soldi. Chiama i carabinieri e con loro prepara la trappola in cui il Mariuolo cade con tutte le scarpe.
Ma perché riprendere questa vecchia storia? Semplice, perché non tutto quello che il grande pubblico crede di sapere su ‘quella vecchia storia’ è vero, mentre quello che invece ignora ha gettato le fondamenta per costruire la terza repubblica che conosciamo, fondata da un lato su un indebitamento che ci sta togliendo, in tasse, sei mesi all’anno di frutti del nostro lavoro quando va bene,  e dall’altro su un’illegalità elevata a sistema e su una corruzione di proporzioni apocalittiche. Tanto per date un’idea:
La corruzione vale 10.000 miliardi all’anno, ha generato un indebitamento pubblico tra i 150.000 e i 250.000 miliardi di lire, con 15-25.000 miliardi di relativi interessi annui sul debito (fonte Mario Deaglio, 1992).
Naturalmente il conto era in lire. Ma lire del 1992!
A mettere insieme i pezzi con una precisione da amanuensi medioevali sono Barbacetto, Gomez e Travaglio, il noto trio di irriducibili della legalità che, con il loro ‘Mani pulite, vent'anni dopo’, non raccontano affatto una storia passata.
A rileggere oggi quei fatti vengono i brividi perché sono lo specchio rovesciato della nostra crisi permanente, del lavoro che non c’è perché le banche non finanziano più le imprese e gli oneri sono troppo alti, degli appalti a catena che producono vantaggi solo per chi li ottiene, delle operazioni di riciclaggio legalizzate dalle sanatorie e dagli scudi fiscali, delle leggi salvaladri che hanno prodotto l’impunità per concussori e corruttori, per tangentisti, bancarottieri ad hoc, evasori e tutta la pletora di loschi figuri che stanno a monte dell’impoverimento generalizzato degli italiani e dell’aumento esponenziale di coloro che si trovano sotto la soglia di povertà. Altro che crisi venuta dall’America (o dal crollo delle torri gemelle) come hanno tentato di farci credere i grandi imbonitori! E’ un dato di fatto che per le ruberie elevate a sistema, scoperte con l’effetto domino delle chiamate in correità nel 1992-93, quasi nessuno ha pagato e la maggior parte dei responsabili si è ritrovata nuovamente nella posizione di poter reiterare gli stessi reati, ma con qualche furbizia in più e soprattutto con le nuove leggi che ne impediscono il perseguimento.
Tanto per dare un’ide:
L’inchiesta Mani pulite ha prodotto circa 1.300 dichiarazioni di colpevolezza, fra condanne e patteggiamenti definitivi... Circa il 40 per cento degli indagati si sono salvati grazie alla prescrizione, a cavilli procedurali o a modifiche legislative su misura. Quasi tutti gli indagati del 1992-94 e degli anni successivi sono rimasti o tornati rapidamente nella vita pubblica.

Dunque Tangentopoli non è affatto acqua passata e questo libro, riveduto, corretto e aggiornato, la cui lettura riserverà molte sorprese a chi crede di sapere tutto su quella stagione, è un documento storico da consultare ogni tanto. Infatti, nelle sue quasi 900 pagine si trovano tutte le risposte al malessere diffuso che pervade il Paese e a quella forma di miopia nazionale che impedisce di guardare alle vere cause del malessere stesso, per individuare i veri “untori” e tutti coloro che per decenni hanno considerato gli italiani un popolo di creduloni opportunisti e l’Italia, con le sue ricchezze, una “mucca da mungere”.

Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio

MANI PULITE. La vera storia

Chiarelettere, 882 pagine, 8.08 euro anziché 9.50 su internetbookshop.

Incipit
“Camminavamo veloci, forzando l’abbraccio umido di eriche e felci. Lui in testa. Io gli scivolavo dietro come una slitta trainata dai cani. Avevamo munto le bestie e dopo averle rinchiuse nell’ovile e riposto il latte, alle prime ombre della sera eravamo partiti. Dovevamo attraversare la montagna lasciando la vista di un mare per vederne un altro. La consegna del porco sarebbe avvenuta a molti chilometri di distanza.
Piovigginava da giorni. L’acqua non riusciva a penetrare la giubba impermeabile della pesante mimetica dell’ejército español e a bagnare la camicia e i pantaloni. Il vapore del corpo fuorusciva a folate dal giaccone, e attraverso le tasche aperte dall’interno controllavo continuamente che l’AK 47 non si bagnasse. Il contatto col metallo freddo mi dava una scossa di adrenalina già abbondante nel sangue.Toccavo la sgraziata leva del selezionatore di fuoco per accertarmi che non fosse in R o J ma in U, sicura. 
Avevamo munto le bestie e dopo averle ricoverate e riposto il latte, alle prime ombre della sera eravamo partiti. La consegna del porco doveva avvenire a molti chilometri di distanza, lui agli appuntamenti arrivava sempre in abbondante anticipo. 
Attraversammo nell’ordine boschi di lecci, bassi e fitti, pieni di cespugli spinosi che a volte vincevano lo spessore degli abiti e segnavano le carni; strette file di pino comune, dove il pericolo era rappresentato dai rami bassi e secchi che cercavano inesorabilmente gli occhi, bisognava inclinare la testa e lasciare che la visiera del berretto respingesse gli attacchi; boschi di altissimi e maestosi larici i cui aghi morbidi nascondevano profonde buche scavate dai cinghiali, dentro le quali si misurava l’elasticità e la solidità delle caviglie (un’entrata baldanzosa e si finiva, se c’erano, sulle forti spalle di qualcuno che ti trasportasse in un ricovero), per chi può vedere, gli aghi di pino sono una candida distesa di neve sulla quale le tracce durano giorni; immensi faggeti su estensioni pianeggianti camminando sopra croccanti crackers, tale è il rumore delle foglie calpestate, assordante nel bosco silente.”

A questo libro, entrato nelle librerie nel 2008 e passato quasi sotto silenzio, si è ispirato il film omonimo, presentato l’anno scorso alla mostra cinematografica di Venezia e diventato subito cult.
‘Anime nere’ non è il primo libro a diventare un best seller dopo essere transitato per il grande schermo. Però è certamente il primo a cui il cinema ha dato credibilità non tanto per il valore letterario, che è indiscutibile, quanto per il contenuto: una vera e propria denuncia dei mali che hanno corroso la Calabria: rassegnazione a riti arcaici, rapacità, crudeltà.
L’azione parte da Africo, un piccolo comune dell’Aspromonte ad alta densità mafiosa in cui, negli anni ’80 e ’90, si sono decisi, organizzati e messi a segno molti sequestri di persona nel corso dei quali la sopravvivenza o la monte dell’ostaggio, chiamato ‘porco’, non facevano alcuna differenza.
Protagonisti: tre ragazzi cresciuti come fratelli, non affiliati alla ‘ndrangheta nel senso di ‘battezzati’ ma impregnati fino alle ossa di cultura mafiosa. Tre giovani della Locride, figli di pastori, cresciuti poveri a inseguire le capre lungo i ripidi sentieri dell’Aspromonte, abituati fin da piccoli a custodire, nella porcilaia segreta, quella nascosta sotto le frasche nei luoghi più impervi della montagna, i ‘porci’ speciali, cioè gli ostaggi rapiti al nord. Un’attività considerata normale da tutti da quelle parti, come allevare capre e ammazzare capretti a Pasqua, tanto è vero che nessuno spreca mai un pensiero pietoso sulla sorte del  ‘porco’ di turno, tenuto in custodia generalmente per conto delle organizzazioni criminali ma qualche volta anche rapito da questa o quella famiglia per un business privato.
Quando si cresce in una terra aspra, violenta arcaica, abituati a considerare  uomini e bestie alla stessa stregua, non si può che seguire negli anni il sentiero della forza, della brutalità e del sopruso. I protagonisti di questo romanzo: Luigi, Luciano e il narratore, che
“… a diciannove anni avevamo rubato, rapinato, sequestrato e spezzato vite. In un mondo che rifiutavamo, perché non era il nostro, tutto quello che volevamo ce lo siamo preso.”

dell’organizzazione mafiosa hanno assorbito tutto: stile di vita, modi, pensiero, abitudini e, come ‘ndranghetisti veri,  percorrono tutte le strade del crimine: furto, rapina, sequestri di persona, traffico di droga, estorsioni e omicidi. Si lasciano coinvolgere in una miriade di situazioni tipiche della malavita ma senza le attenuanti tipiche dei miserabili che non scendono mai dalla montagna, per i quali anche il pane è un lusso. No, a loro è concesso di studiare: liceo e università pagati dai genitori con i soldi del crimine,  
I luoghi principali in cui le ‘anime nere’ compiono i loro misfatti sono le forre dell’Aspromonte ma anche Milano, dove si studia e si fanno gli affari . E tutte le grandi città europee, visitate  sulle rotte dei traffici di droga.
Inutile cercare nel romanzo l’intreccio e l’azione su cui è imperniato il film. Solo i protagonisti e le atmosfere sono gli stessi. Tutto il resto è pura sorpresa. 
Anime nere è il primo libro della trilogia che l’autore ha imperniato sulla mafia.  Seguono Zefira e American taste: tre romanzi che, nell’insieme compongono un grande arazzo storico nel quale la brutalità del crimine, la sopraffazione, ma anche la disperazione di vite a perdere non permettono mai ai lettori di convincersi che si tratti di fiction.
Gioacchino Criaco, nato proprio nel cuore nero della Calabria, ad Africo, come i suoi protagonisti, ha provato sulla propria pelle cosa significhi essere figlio di pastori e cercare un riscatto sociale. Dalle sue parole emerge una realtà antropologica e culturale da brivido, che rifiuta il fatalismo di cui è impregnata la letteratura meridionale, per fotografare, con la voce dei cattivi, la realtà vera di una terra che sarebbe meravigliosa se ancora oggi non fosse ostaggio di un pugno di criminali.  Di ‘anime nere’, appunto.

Gioacchino Ciriaco

ANIME NERE

Rubbettino, 214 pagine, 11,90 euro anziché 14.00 su internetbookshop.

Incipit.Prologo[Settembre 1092]
“La sofferenza non da tregua al tempo.”
“Il vescovo di Reggio, Eriberto, era stato il primo a parlare. Dopo di lui, lo avevano seguito tutti gli altri. Vescovi, abati, monaci, e i pochi fedeli vassalli che ancora non le avevano voltato le spalle. Uno dopo l’altro avevano detto la loro opinione, e avevano espresso unanimi il proprio pensiero: la proposta di pace dell’imperatore era l’unica strada, la resa incondizionata al suo esercito l’unica salvezza.
La piccola chiesa all’interno della rocca delle Carpinete era illuminata da tante piccole candele che leccavano con fiammelle guizzanti le basse volte e la navata spoglia, facendo vibrare le ombre dei presenti sulle colonne e sulle pareti di sasso. I muri sembravano vivi, parevano quasi respirare i dubbi e
le paure di coloro che si erano raccolti attorno alla Grancontessa per decidere le sorti di quella guerra infinita che da dieci anni divideva e insanguinava la penisola italica. Non sembrava esserci via d’uscita.
Matilda era seduta davanti all’altare, di fronte a tutti. Voleva guardare i volti di coloro che l’avevano sostenuta fino a lì e che, ormai lo aveva capito, preferivano capitolare piuttosto che continuare ancora a combattere. Era avvolta in un mantello leggero, i capelli sciolti sulle spalle e trattenuti da un cerchietto dorato, l’unico gioiello che le era rimasto come ricordo dopoessersi spogliata di tutti i suoi tesori per partecipare alla causa di san Pietro e del suo amato papa”.

La storia è fatta dell’avvicendarsi di grandi eventi, di vicende felici e catastrofiche che proseguono implacabilmente, addentrandosi nelle pieghe del tempo. Grandi uomini e protagonisti mediocri, eroi e pallide figure a cui sono toccati in sorte impegni e responsabilità superiori alle loro forze si muovono su scenari destinati a imprimersi indelebilmente nella memoria e nella tradizione condivise. Ma questi personaggi non sono solo nomi e date collocati nelle rispettive epoche. Sono quasi sempre uomini, molto raramente donne, dotati di fisicità. Persone che hanno vissuto mangiando, amando, pregando, camminando per corridoi, attraversando saloni, godendo di meravigliosi giardini, dando ordini a segretari e ancelle, scudieri e consiglieri. Eppure di questa corporeità non c’è traccia nei libri di storia ed è un peccato perché anche soltanto qualche breve accenno tratto da documenti dell’epoca o dalle immancabili biografie li renderebbe vivi, imprimendoli indelebilmente bella memoria.
Un libro come questo è esattamente l’anello che mancava per congiungere il saggio storico con il romanzo in tutta la sua godibilità, integrandoli perfettamente l’uno con l’altro.
L’argomento trattato è assolutamente affascinante: Matilda di Canossa (così si firmava lei con cristiana umiltà: Matilda Dei Gratias si quid est, ovvero Matilda che è qualcuno per grazia di Dio) anche se gli storici la chiamano più spesso col nome tedesco: Matilde.
La vita di Matilda, Grancontessa di Canossa, di cui è ricorso il novecentesimo anniversario della morte proprio lo scorso 24 luglio, giorno dell’uscita del libro, è una grande epopea. Cugina di Enrico IV che le fu nemico per tutta la vita, vera e propria regina degli immensi dominii dei Canossa, da lei ereditati in virtù del diritto longobardo di successione, ma, in mancanza di eredi, reclamati armi in pugno dall’imperatore di cui oltre che parente prossima era vassalla, nella guerra nota come ‘Lotta per le investiture’ la Grancontessa si assunse il ruolo di mediatrice fra ‘Sole e Luna’, i due sommi poteri della cristianità medioevale. Un ruolo scomodo, che lei assolse con poca imparzialità schierandosi apertamente con il papato rappresentato da Gregorio VII, suo grande amico, protettore, consigliere e forse molto di più, come vorrebbero le malelingue dell’epoca.
Il romanzo di Matilda, firmato da Elisa Guidelli è la prima opera narrativa dedicata alla donna più potente della cristianità dopo la regina Teodolinda, forse anche della storia moderna. Dalle pagine, che letteralmente si divorano, scaturisce una grande eroina poco mistica e molto guerriera, dotata di fascino e bellezza ma anche provvista di una forza d’animo straordinaria e di un carisma che non ha uguali nella storia dell’Occidente. Ma non basta: raccontare Matilda  è per l’autrice anche l’occasione per comporre uno straordinario affresco dell’Alto  Medioevo, un periodo storico a torto relegato nelle pieghe di un passato bollato come “oscuro”.
Anni bui quelli dopo l’anno mille? Assolutamente no se a una donna fu concesso di istruirsi, cavalcare come un uomo, cacciare, guidare eserciti, regnare e assumersi responsabilità politiche e religiose di altissimo livello! Un ruolo, quello di Matilda,  che, al paragone, quello di Angela Merkel è poco più di niente.
Del resto, tutto in Matilda, nata a Modena nel 1046, è molto diverso da quello che viene riportato nei libri scolastici ai capitoli riservati all’episodio dell’umiliazione di Enrico IV, l’unico in cui lei venga collocata, con un ruolo quasi da comparsa.
Ricordiamo, a questo proposito, che se l’Imperatore, scomunicato, dovette prostrarsi per tre giorni nella neve, davanti al castello di Canossa, per invocare la misericordia del papa ospite di Matilda, non fu per caso. Inoltre la vita della Grancontessa non fu affatto asettica, monacale come l’agiografia religiosa ci ha tramandato.
In questo libro, alla donna incoronata “regina d’Italia” dall’ultimo imperatore salico del Sacro Romano Impero, Enrico V, figlio del suo acerrimo nemico, donna che fra le mille altre cose fu anche un vero capo di Stato dal momento che i suoi domini comprendevano tutta l’Italia centro settentrionale fin quasi a Roma, viene restituita con il gusto di una narrazione letteraria leggera ed elegante, tutta la sua corporeità. 
Vita e lutti, amori e lotte, caduta e riscatto, violenze e passioni della Grancontessa Matilde di Canossa
Questo promette il sottotitolo in copertina. E il contenuto, che si discosta pochissimo dalla verità storica, è davvero pieno di sorprese.

Elsa Guidelli

IL ROMANZO DI MATILDA

Meridiano Zero, 383 pagine, 15.30 euro anziché 18.00 su internetbookshop.

Incipit. Il problema sei tu
 “Fammi un favore: qui a Roma gira voce che Napolitano abbia fatto pressioni su di te per convincerti a uscire dalla maggioranza, promettendo di farti ministro. È vero? Dimmi la verità!”.
È un pomeriggio di metà febbraio del 2014, fa freddo, le nuvole corrono lontano, spinte da un monotono vento di nord est. Nella casa di Muggia, paesino sul mare dirimpetto a Trieste, l’unico delle coste adriatiche da cui si può ammirare il tramonto sul mare, Roberto Antonione ascolta con un sorriso ironico la domanda che gli fa Silvio Berlusconi al telefono.
Antonione si è ritirato da tempo dai riflettori della politica nazionale. Ma in cuor suo sa che quella domanda gli pendeva sul capo. Perché nella vicenda che ha fatto tremare il mondo nel novembre 2011 e che ha visto l’Italia al centro della bufera, ha avuto sicuramente un ruolo decisivo.
È un berlusconiano della prima ora. Sessantun anni, odontoiatra, entra in Forza Italia fin dal 1994, anno in cui il partito viene fondato da Berlusconi, scala la gerarchia, diventa parlamentare, sottosegretario agli Esteri, arriva a essere coordinatore nazionale dal 2001 al 2003. Ha un viso tranquillo, da signore pacato e sorridente, sempre arruolato nell’ala più moderata e soft del partito.
Nei primi giorni del novembre 2011 esce dall’anonimato delle truppe azzurre, organizza e capeggia un piccolo gruppo di deputati che nega il sostegno al governo Berlusconi.
“E mo’ so’ cazzi”, commenta alla romana Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati Pdl, appena apprende la notizia. La maggioranza, già risicata e traballante dopo l’uscita di Gianfranco Fini, martedì 8 novembre, sull’approvazione del rendiconto dello Stato, scende così a quota 308 voti alla Camera su un totale di 630. È la certificazione formale e ufficiale che non c’è più”.

E’ passato meno di un anno dall’uscita in libreria di questo libro. Ne sono trascorsi quasi quattro dall’episodio che ne è l’argomento principale, eppure pare di leggere una storia lontana nel tempo, ormai dimenticata. Da quel 12 novembre, giorno in cui il presidente Napolitano invitò il premier Silvio Berlusconi a prendere atto che la maggioranza non c’era più per l’abbandonano di dodici senatori del Pdl e quindi a farsi in là per amore del paese, si sono succeduti tre governi. Molte cose sono cambiate e non tutte in meglio anche se l’aria che si respira è leggermente meno inquinata dai veleni dei Palazzi e l’economia, pur restando disastrata, ha almeno fermato la corsa verso il baratro. E tuttavia, poiché l’Italia è il Paese in cui il passato cacciato dalla porta tende a rientrare dalla finestra, sarebbe utile rinfrescare la memoria con la cronaca di quella giornata che segnò la svolta della politica italiana e la morte della Seconda repubblica.
Anzitutto vale la pena di ricordare perché il 12 novembre 2011 si ricordi come “Il giorno dell’Alleuia”.
Molti lo avranno dimenticato ma quel giorno, davanti al Quirinale, insieme con la folla che attendeva le dimissioni del Cavaliere, c’era una vera orchestra di musici professionisti, con tanto di coro diretto dal maestro Fabrizio Cardosa, pronti a suonare l’Alleluia come “canto della liberazione”. Una performance che preparavano da tempo in attesa di celebrare il momento. Così, appena giunse la notizia che le dimissioni erano state firmate e consegnate nelle mani del presidente Napolitano, dalla piazza gremita al punto che non sarebbe potuto cadere uno spillo, si sollevarono le note di Händel.
Naturalmente l’esecuzione  fu ripresa dai cineoperatori presenti. Filmati e fotonotizie fecero il giro del mondo diventando il suggello dell’ingloriosa uscita di scena di un uomo che sembrava invincibile.
Ma è davvero uscito di scena il Cav? Nell’aria c’è odore di nuove elezioni. I sondaggi Mediaset dicono che il marchio Berlusconi va ancora forte e che se solo Silvio riuscisse a superare lo scoglio dell’agibilità politica annullando gli effetti della legge Severino, Forza Italia potrebbe tornare quasi agli antichi splendori puntando a far uscire dalle urne un buon 20% di consensi. E’ proprio di questi giorni la notizia che i proconsoli del Cav. sono al lavoro e la speranza di riuscire a convincere Renzi e Alfano a firmare un decreto salva-Silvio, visto che molto difficilmente si riuscirà a strappare un provvedimento di grazia al presidente Mattarella, non è affatto remota.
Dunque, alla luce di quanto riferito sopra, non sembra poi così inutile fare un veloce e divertente ripasso della giornata che tutti credevamo avesse chiuso l’esperienza di governo di Silvio Berlusconi.
In questo libro gli autori ripercorrono, ora dopo ora, con testimonianze e dettagli inediti, le circostanze in cui è maturata la resa del Cavaliere e confermano che non ci fu nessun complotto internazionale contro di lui. Semplicemente la verità a volte è stupida, come ha detto Roberto Antonione. Le dimissioni, sollecitate da Napolitano, furono un atto obbligato dal momento che l'Italia, la cui economia stava per essere inghiottita dal buco nero delle speculazioni mondiali, riceveva pressioni internazionali molto forti perché avvenisse un cambio di rotta.
Bunga bunga, Olgettine, cene ‘eleganti’ denaro a pacchi e, sulla scena internazionale, le risatine di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy in mondovisione. Addirittura papa Benedetto XVI che mette in atto complicate strategie per evitare ogni contatto con lui: Berlusconi non era più credibile. Eppure non voleva andarsene. “L’Italia,” diceva da ogni canale tivù, “ha ancora bisogno di me”. Solo quando era arrivata la notizia che dopo le defezioni del suoi la maggioranza non c’era più si era deciso a salire al Colle.
Immaginiamo la scena: il premier e il presidente sono seduti uno davanti all’altro. Mentre parlano ,la piazza antistante lo storico palazzo si riempie. Passa il tempo e i musici cominciano ad accordare gli strumenti.  
Alessandro Corbi e Pietro Criscuoli, cronisti parlamentari di grande esperienza, al corrente di dettagli inediti, nel libro 'Il giorno dell'Alleluia', ripercorrono, giorno dopo giorno tutte le tappe che hanno preceduto l’esplosione della piazza in delirio sulle note di Händel.

Alessandro Corbi, Pietro Criscuoli

IL GIORNO DELL’ALLELUIA. Come l’Italia si è slavata dalla bancarotta

Nutrimenti, 143 pagine, 11.05 euro anziché 13.00 su internetbookshop.

Incipit. Per le vie del borgo insigne

“Dario camminava lento, con passo quasi cadenzato. Al suo passaggio un vago sentore di vaniglia proveniente dalla sua pipa si spandeva per l’aria. Freccia, il meticcio nero dal pelo perennemente arruffato rispondeva, urinando in ogni angolo, a chissà quali messaggi lasciati da qualche suo amico. Ogni sera lo stesso percorso. Erano due abitudinari. Uscendo da casa si fermavano al Bar Sport di piazza Verdi per un caffè. Elena, la signora cinese che lo gestiva sapeva il suo orario e gli faceva trovare già pronto sul banco il suo “doppio lungo in tazza grande” e l’immancabile bicchiere d’acqua.
Finito il caffè usciva ad accendersi la sua pipa di schiuma.
Si incamminava, passando a fianco della casa di riposo gestita dalle suorine del sacro Cuore, verso l’allea, il viale alberato di Sale che a lui, sforzandosi, ma molto, ricordava Central Park.
Beh, forse in piccolo, ma per lui era così.
Sale, questo paese della bassa valle Scrivia, città fortificata nel diciottesimo secolo, l’aveva conquistato subito, appena giuntovi nel lontano 2007. Aveva letto sui libri la sua storia e conoscendo il carattere ruvido e aspro dei locali si era convinto che qualcosa di teutonico o quantomeno di nordico possedevano. Infatti, nella memorabile notte del 553 d.C. in cui gli sventurati fuggiaschi ostrogoti, denutriti, affranti da una lunghissima camminata durata più notti e terrorizzati dalla martellante idea di poter essere scoperti e sgozzati dai cavalleggeri imperiali di Bisanzio, posarono i piedi da queste parti, sulla sponda destra del fiume Tanaro, acquisirono la certezza che in questo posto il loro terribile incubo era finito, indubbiamente attribuirono a questo ospitale e sicuro nascondiglio la funzione di dimora-rifugio che in gotico si diceva ‘sala’”.

Sale, granellino di sabbia sulla mappa del Nord Italia. A chi mai verrebbe in mente di andarlo a visitare? Chi, attraversandolo diretto ad altre destinazioni, oppure ritrovandovisi dopo aver sbagliato strada, penserebbe di sostarvi per una visita? E invece è un borgo bellissimo e molto antico risalendo il primo insediamento longobardo a quattro secoli prima dell’anno mille. E’ un borgo pieno di storia con belle chiese risalenti al lX-XI secolo, circondato da campi coltivati e, come spesso accade ai comuni lontani dalle grandi città,’animato da una gran voglia di cultura. Tutto questo per dire che, se non fosse per i giallisti che descrivono minuziosamente realtà locali sconosciute, facendo immergere i lettori in quello spirito ‘delle provincia’ che nel nostro paese, terra di molte conquiste e di tradizioni diverse, muta di borgo in borgo, gran parte dell’Italia e della sua storia sarebbe sconosciuta agli stessi italiani.
Sale è dunque un borgo della bassa Lomellina, conteso a lungo da province e città del profondo Nord: Pavia, Tortona, Alessandra. In una cornice geografica così settentrionale è molto difficile incontrare cadaveri incaprettati secondo un preciso codice mafioso come a Bagheria. Soprattutto se i cadaveri sono femminili. Perché da quelle parti primo, non si ammazza; scondo, se proprio si deve, si adopera un ciocco di legno, una pesante padella, tutt’al più una roncola.
A fare la macabra scoperta durante la solita passeggiata serale col padrone, Dario, ex carabiniere ed ex giornalista, ex un sacco di altre cose, è il cane Freccia. Un’annusata qua, uno schizzo di pipì là, e Dario lo vede scomparire nel folto della vegetazione che ricopre le rive del fossato lungo u strìgasö’d sän Lasär, il sentiero che porta al Crusộn, grande croce di legno come se ne vedono spesso nei paesi di campagna. Da qui prende il via un’indagine che affianca quella ufficiale dei carabinieri, condotta fra bar, trattorie e night club alla buona, dove la gente non parlerebbe mai con chi indossa una divisa,  ma con uno del posto, stimato da tutti, qualche parola ogni tanto è anche disposta a lasciarsela sfuggire. E così, pian piano, una parola qua un’intuizione là, Dario riesce a ricostruire tutta la vicenda riuscendo anche a tirare fuori di galera un presunto colpevole che,  guarda guarda, è di colore.
Questo è  un giallo così calato nei luoghi che molti personaggi sono riconoscibili perché presi pari pari dalla strada, a cominciare da Dario, investigatore suo malgrado:
 Lui inguaribile pessimista, romantico e malinconico, che adorava Pavese e Fenoglio, amava quell'atmosfera crepuscolare. Rifletteva spesso su cosa lo accomunasse a quel paese, dove le caratteristiche principali era le zanzare d'estate e la nebbia accompagnata dalla galaverna d'inverno...
Che una visita ai luoghi dopo averlo letto è quasi d’obbligo. Per ripercorrere i sentieri di Dario, sedere nei pochi bar che ancora servono ‘bianchini spruzzati’ e, a mezzogiorno in punto, per pranzare nella migliore trattoria di Sale, in frazione Santo Stefano, con barbera e bagna cauda da urlo..

Riccardo Sedini

DELITTO AL CRUSON. Una storia tutta salese

Frilli, 128 pagine, 8.42 euro anziché 9.90 su internetbookshop.

Incipit. Marta
1. Risveglio.
“Bastare a se stessi, come i gatti. sforbiciare, sfrondare, sfoltire.
Ancora in pigiama, Marta cerca mentalmente sinonimi adatti con l’esse impura e intanto prepara la tavola per la colazione del mattino. Tovaglietta tazzone lattiera cucchiaini, fette biscottate e marmellata di fragole.
A eccezione degli alimenti, ogni oggetto ha la sua storia e rappresenta un impegno: tenere a freno la casualità e imporre ordine e orario ai ricordi. L’intervento del caso – l’ha imparato a sue spese – non si può bandire del tutto, ma stando all’erta si riesce a evitarne gli assalti più plateali. E ricordare
punge graffia e incide le carni come un cilicio, perciò non bisogna permettere alla memoria di sbizzarrirsi in qualsiasi momento. Disciplina, ci vuole. ma chissà come è fatto un cilicio, pensa svagatamente, e si ripromette di cercare
su Google.
I due cucchiaini testimoniano un frammento di vita ambiguo, riportano a speranze e desideri non pienamente appagati, hanno in sé un sentore dolce con un retrogusto leggermente aspro, ma impediscono alla bilancia dei ricordi
di pendere troppo da una parte”.

Marta, ragazza non esageratamente simpatica come lo sono i personaggi dal carattere troppo riservato, troppo avari di sé, ha un primo inconsapevole incontro con Michele da bambina.
Lei, piccola privilegiata, figlia di un cardiochirurgo famoso il cui amore paterno è distratto e intermittente, sta leggendo un libro seduta su una seggiolina azzurra. E’ su un terrazzino, probabilmente quello di servizio, del suo lussuoso appartamento, affacciato su un cortile.
Lui, terroncello figlio di immigrati in un città che non amano e che non li ama,  casa piccola, madre scontenta, sorella maggiore odiosa, per sfuggire alla noia insopportabile delle  domeniche pomeriggio con tutti in casa a darsi reciprocamente sui nervi, si rifugia sul proprio balconcino che si trova proprio dirimpetto a quello su cui siede la bambina. La vede leggere e ne è incantato. Ha solo sette anni, Michele, ma quei capelli quasi rossi, la seggiolina azzurra, il libro, gli appaiono come le chiavi di un mondo che gli è precluso.
Michele e Marta appartengono a due ambienti sociali molto diversi. Da quei balconi che quasi si toccano non si parlano, non si salutano. Forse Marta non si accorge neppure dell’esistenza di quel bambino che la scruta ogni domenica.
La vita li separa inesorabilmente quando la famiglia di Michele trasloca. Si ritroveranno adult,i ma quello che avverrà fra loro non è importante. A dare grande spessore al libro è tutto quello che popola gli anni in cui ciascuno, dal proprio pianeta, vive osservando la vita degli altri da dietro i vetri della propria esistenza.
Sotto gli occhi dei due ragazzi sfila un’umanità divisa, le cui due metà sono l’una l’immagine deformata dell’altra e nella quale cadono molti muri del pregiudizio. Perché sia Marta sia Michele, entrambi appassionati delle vite altrui, scoprono che spesso la verità sta da un’altra parte.
Un libro bellissimo, scritto da Margherita Oggero con leggerezza e ironia, che tocca punte insospettate di profondità di pensiero, soprattutto quando, senza averne l’aria, quasi con casualità, fa intravedere le barriere sociali che fino a pochi anni fa (e forse ancora oggi) condizionavano le vite dei cittadini nella città più snob d’Italia, che non ha mai scordato il proprio nobile passato.

Margherita Oggero

LA RAGAZZA DI FRONTE

Mondadori, 223 pagine, 15.72 euro anziché 18.50 su internetbookshop.

Incipit. Prologo
Prologo. “Trova le differenze
Ieri
«A villa Torlonia il Duce pratica ogni giorno uno sport. Il lunedì marcia. Egli percorre con gioia e senza sforzo apparente parecchi chilometri, a un’andatura rapida e cadenzata qualunque sia il tempo. Io prendo una boccata d’aria vivificatrice – Egli dice – e nel tempo stesso mi avvicino alla natura. Io amo il cinguettio degli uccelli sugli alberi, lo scricchiolio dei ramoscelli che si rompono sotto i miei piedi, o anche la pioggia che mi inonda il viso o la neve che attutisce il mio passo. Il martedì è dedicato al nuoto. I moderni sistemi di nuoto sono conosciuti dal Duce che si tuffa con audacia in piscina e nel mare e termina volentieri la nuotata conversando nell’acqua con i suoi figli. Sulla sua motocicletta o sulle auto da corsa Egli divora il mercoledì le belle strade che si
snodano nella campagna romana. Pilota pieno di audacia, non ha mai avuto il minimo incidente e se qualche volta il mezzo meccanico lo tradisce, Mussolini non esita a ricercare lui stesso la causa del guasto senza preoccuparsi dell’olio o del grasso che sporcano le Sue mani. L’abilità di Mussolini nel cavalcare è ben nota. Il giovedì Egli salta tutti gli ostacoli con facilità da perfetto audace cavaliere. Il suo cavallo bianco, che Egli circonda di ogni cura e che è davvero focoso, sa comprendere l’affetto del Suo padrone nitrendo in modo significativo allorché sente la Sua voce. Due ore di volo e di motonautica occupano il venerdì e costituiscono la migliore ricreazione del Duce. Il sabato è consacrato a una lunga seduta di scherma, seguita da una di pugilato. Anche in ciò Mussolini prova che il suo corpo ha un’agilità sorprendente…»  («La Stampa», 2.12.1934, anno XIII dell’Era Fascista).
Oggi
«Ma Renzi come organizza la sua giornata? Cosa fa nel tempo libero? […]
La sveglia continua a suonare molto presto,segnalata con tempestivi tweet all’alba. Dopo una rapida lettura dei giornali sul mini iPad e una spremuta d’arancia quasi sempre in compagnia di Delrio e Lotti, il premier si butta sullo smartphone [...]  Nel suo ufficio governativo gira spesso senza scarpe,  a piedi nudi. Le sneakers, invece, servono per la cyclette che ha fatto montare a Palazzo Chigi. Mezz’ora ogni mattina davanti alla televisione per seguire le news e i talk show. Niente jogging, però. A Firenze giocava a tennis o a calcetto di martedì. Un’abitudine di tanto in tanto – preferibilmente il venerdì – coltivata riservatamente anche nella Capitale: corre dietro a un pallone in un luogo discreto, anche per ragioni di sicurezza, e qualcuno ricorda l’esempio della Nazionale parlamentari, abbonata ai campi della caserma militare della Cecchignola. Calcetto a parte, Renzi potrà distrarsi nell’agosto romano con un occhio al piccolo schermo. Nel suo studio la tv è sintonizzata quasi sempre su programmi di approfondimento politico. Poi spazio ai tg italiani e alla Cnn. E al calcio. Quanto alle serie tv, ha di recente confidato una passione per House of Cards» (Tommaso Ciriaco, «la Repubblica», 12.7.2014, anno I dell’Era Renzista).

Slurp: dall’inglese toslurp che significa «sorbire con rumore». Parola di origine onomatopeica. Nel linguaggio dei fumetti è la forma grafica che riproduce il rumore di chi mangia qualcosa con gusto o di chi ha l’acquolina in bocca (dizionario Treccani).
Nel linguaggio immaginifico è il colpo di lingua di lecchini e leccaculi  (le due parole non sono sinonimi) sferrato dal cliens al suo patronus e a chiunque possa elargire qualche vantaggio. Dunque, mai titolo fu più azzeccato di questo dal momento che l’autore del libro, Marco Travaglio, da quel vorace topo d’archivio che è, dopo aver accumulato interi scatoloni di articoli celebrativi smaccatamente ruffiani, ne ripropone un vastissimo florilegio.
Sono più di 500 pagine di colpi di lingua sferrati nel corso dei decenni, dal ventennio fascista a oggi, da giornalisti italiani alle terga di coloro che di volta in volta hanno avuto in mano il potere a qualsiasi livello. Una scia di bava che potrebbe fare l’avanti e indietro terra-luna più e più volte.
Il quadro d’insieme che ne scaturisce è un desolante ritratto del “secondo mestiere più antico del mondo (che dopo tutto non è troppo diverso dal primo). Chi ha fatto, in passato, e continua a fare oggi l’informazione nel nostro paese ne esce malissimo. Però è anche un quadro che dà un senso all’espressione “schiena diritta” applicata ai pochi che non hanno mai perso la bussola dietro al potere e hanno fatto con correttezza e rigore il loro mestiere, molto spesso pagandone di persona un prezzo alto (e chi scrive sa quel che dice!).
Sembra solo folklore tutto questo menar slinguate a destra e a manca. In realtà, poiché i leccatori di professione: giornalisti e opinionisti, sono i più presenti sui media di grande ascolto e quindi sono i più ascoltati dalla massa dei telespettatori, fedeli ai tiggì Rai e Mediaset,  ecco spiegato perché in Italia i politici peggiori (salvo rare eccezioni) e la peggior classe dirigente hanno avuto tanto successo in termine di voti  ma anche di quattrini e potere: due cose che alla fine sono complementari.

Questo libro, composto con pazienza da Travaglio che non si è certo risparmiato in frusta e sarcasmo,  propone il peggio dell’italica  "zerbinocrazia". Si legge con gusto e grande diletto ma non va preso come un divertimento giornalistico estivo, perché offre, ai lettori più attenti, un panorama dei voltafaccia impressionanti. Quei voltafaccia cioè, che hanno permesso ai ‘leccati’ di portarci dove siamo.

Marco Travaglio

SLURP. Dizionario delle lingue italiane. Lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati

Chiarelettere, 592 pagine, 15.30 euro anziché 18.00 su internetbookshop. Disponibile anche in eBook a 6,99 euro

Incipit . Il romanzo, l’intento
“Questo romanzo nasce con il modesto intento di aiutare tutti noi a ricordarci dell’enorme ‘ignoranza’ [non conoscenza] che esiste nel nostro Paese su tutto quello che è stato compiuto di abominevole dai soldati italiani e dal fascismo nelle colonie, durante le spedizioni nei Balcani e in Grecia, nelle guerre per assecondare la follia di conquista di Mussolini, del regime e delle classi sociali asservite alla dittatura per bieco interesse economico personale. Il fascismo è stato un fenomeno storico con il quale in Italia non abbiamo mai fatto i conti, nei programmi scolastici non si fa mai riferimento a quanto di immondo è stato fatto dai nostri eserciti, il mito degli ‘italiani brava gente’ pare essere un dogma del quale è vietato parlare in modo critico e di condanna. C’è qualcosa di perverso in questa volontà di NON raccontare la verità su ciò che è successo durante il ventennio, di quali nefandezze si è reso responsabile il dittatore e la sua accozzaglia di banditi dalla camicia nera, della complicità della monarchia, del silenzio-assenso ecclesiastico, delle gravi responsabilità del capitalismo nostrano d’allora.
Prologo.
Dall’alto si domina il paese e laggiù, sullo sfondo, il blu cobalto del mare. In basso, sulla destra, la lunga piazza.
Marciapiedi a mattonelle grigie con gli alberi stranamente acconciati a forma quadra da giardinieri impazziti.
Il monumento con l’aquila in cima, a perenne ricordo dei caduti in guerre lontane ma, l’ultima, ancora troppo recente per non far male.
Lo strappo, il dramma collettivo e la follia che avevano colpito ogni angolo d’Italia, avevano pervaso anche quel piccolo paese dell’alto Salento Brindisino, dalle case bianche di calce e le tende a fili sottili in canne di bambù orizzontali posizionate a baluardo dal tremendo calore meridionale. Le rondini si rincorrono, senza sosta, con quello stridio sottile che calma il cuore se ti fermi ad ascoltare.
Matelica (Marche) 28 agosto 1969.
Finalmente le aveva ritrovate.
Aveva impiegato diversi anni a cercarle come un ossesso.
Era stato fortunato. Era riuscito a tornare da quei viaggi dove di molti, quasi tutti, non si seppe più nulla.
Storie disperse nel vento, passate per un camino…
Era stanco e vecchio ma nei suoi occhi ardeva ancora quella luce di vitalità e fiducia che, sebbene il corpo fosse ormai invecchiato, mostravano il giovanotto d’un tempo.
Ma questa era un’icona di molti anni prima.
Secoli.
“Ecco, la busta e il francobollo…”.
“Grazie” rispose alla commessa che, nel lungo grembiule blu, lo guardava incuriosita. Si girò di spalle. Non amava che sbirciassero nei suoi affari, ma questo era un retaggio che si portava dietro dalla terribile esperienza che aveva vissuto. Non avrebbe augurato ad alcuno di vivere quello che aveva vissuto lui… e ‘visto’ quello che lui aveva visto.
In quei posti dove, se non ti fidavi di nessuno, forse potevi salvarti, e quella diffidenza se l’era riportata indietro. Infilò la lettera nella busta in carta grezza, leccò la parte collosa e la richiuse”.

Aurelio, socialista quando il socialismo era una colpa che si pagava con manganellate e olio di ricino, alla fine della guerra torna al minuscolo paese di origine, Braccano, poche case aggrappate a un colle dell’Appennino marchigiano. E’ sopravvissuto al campo di sterminio di Buchenwald e ora, tutto quello che vuole dalla vita è ritrovare due persone: la maestra Maria Eugenia e sua figlia che nei suoi pensieri è ancora  ‘la piccola Lidia’ ma quando alla fine riesce a trovarla, nel 1969, è una ragazza sui venticinque anni.
Lidia e sua madre vivono a Carovigno, un piccolo paese del Salento settentrionale, in provincia di Brindisi. Rintracciate da Aurelio, che neppure conoscono (e questo mistero accompagna il lettore per molte pagine) un giorno ricevono una lettera, indirizzata alla madre, nella quale l’uomo chiede a Maria Eugenia di convincere la figlia a raggiungerlo nella sua casa di Braccano  perché ha cose importanti da rivelarle.
Le spiegazioni che Aurelio dà alla madre di Lidia devono essere molto convincenti perché lei, leggendo la lettera impallidisce ma subito si adopera per organizzare il viaggio della figlia che, nei suoi 25 anni di vita, non ha mai dormito una notte fuori casa.
Lidia è timida ma decisa. Dopo molte resistenze dovute soprattutto al fatto che sua madre rifiuta di darle spiegazioni, accetta di partire con pochi soldi ottenuti in prestito dalle zie. Arriva da Aurelio stanca morta e viene accolta con grande gentilezza. L’indomani, dopo una notte di sonno, scopre che il vecchio non è in casa. Sul tavolo le ha lasciato un busta con alcune foto e un quaderno che ha tutta l’aria di un diario. Anzi, è il diario.
In quelle pagine Lidia ritroverà le proprie radici  e, suo malgrado, arriverà a formarsi una coscienza politica e sociale.
Questa  è l’introduzione alla storia che, alla fine, non risulterà affatto né scontata né banale. Tuttavia per quando sia avvincente, non fa mai dimenticare che la parte qualificante del romanzo rimane è il tema di fondo: i crimini del fascismo.
Il diario che il vecchio Aurelio lascia sul tavolo della cucina per Livia comincia nell’ottobre 1937. Chi scrive è una servetta al servizio di piccoli nobili marchigiani, che, giorno dopo giorno,  registra tutto quello che passa sotto i suoi occhi e che arriva alle sue orecchie, fino alla tragedia finale. Dentro le pagine c’è tutto il nostro peggio: la guerra d’Africa e il colonialismo, il fascismo che si fa sempre più aggressivo, la guerra al fronte, l’invasione dell’Albania, la vergogna del collaborazionismo, soprattutto di quello dell’ultima ora, quando l’Italia è allo stremo.  
La narrazione, salvo qualche ridondanza e qualche eccesso qua e là, facilmente perdonabili, è gradevolissima e non cade.

L’autore riesce a tenere le fila delle storie che si intrecciano e a collegare passato e presente con grande padronanza della tecnica narrativa. Nel complesso, ‘Il barbiere zoppo’ è un libro da gustare ma anche da leggere con calma per un veloce ripasso (grazie alle parti didascaliche e alle foto d’epoca) di quello che siamo stati e che in piccola misura, continuiamo ad essere.

Gino Marchitelli

IL BARBIERE ZOPPO 1969. Una ragazza, la scoperta della Resistenza

Infinito, 282 pagine, 13,60 euro anziché 16.00 su www.infinitoedizioni.it

Incipit. Breve introduzione
“Nel 1986 finalmente il presidente degli Stati Uniticoncesse a Franca e a me il visto per entrare in America. Avevamo fatto domanda già cinque anni prima,
ma allora non avevamo ricevuto il permesso d’ingresso. Scherzando, raccontai ai giornalisti – i quali quasi all’unisono presero la mia storia per buona – che Ronald Reagan era venuto a sapere che tanto me quanto Franca eravamo teatranti. Al che il presidente avrebbe risposto con gran serietà: «Scusate, ma questa è gente del mio stesso mestiere, non posso continuare a sbatter loro la
porta in faccia!».

Il teatro, la nostra vita. Il primo problema: scoprire l’umore del pubblico.

Dopo un certo numero di repliche di una nostra commedia mi capitava qualche volta di non aver nessuna voglia di entrare in scena e recitare. Come ogni sera, passavo dal camerino di Franca che, immancabilmente, mentre finiva di truccarsi, stava ripassando la sua parte. Le bastava sbirciarmi appena per indovinare di che umore io fossi.
«Non ti preoccupare – mi diceva subito –, come snoccioli dieci minuti di battute questa gnàgnera del recitare che hai addosso ti si scioglierà all’istante.»
«Lo so, lo so, ma non capisco come tu possa ogni sera riuscire a mantenere lo stesso umore, non solo, ma come puoi fare a meno di ripeterti i passaggi più ostici del testo da recitare con tanto distacco?»
«È semplice, potresti riuscirci a tua volta con facilità. Sarebbe bastato che da ragazzino i tuoi genitori commedianti, come i miei, ti avessero portato la sera nel retropalco insieme ai costumi e all’attrezzeria, ben sistemato in un baule con dentro stesa una coperta di lana e, mentre loro cominciavano a metter su scena, tu ti addormentavi come la figlia del re, tranquilla e senza problemi. Anzi, le voci dei tecnici e degli attori, aggiunte al brusio del pubblico che entrava in sala, diventavano il Dormi dormi che io ti cantopiù suadente che si possa pensare. Ma ecco che, a un certo punto, la mamma ti viene a svegliare: “Tocca a te, bambino. Ricordati, stiamo recitando I miserabili, e tu sei Cosetta ancora piccola. Ti ricordi la prima battuta?”.
“Mamma, fammi dormire ancora un po’...” La mamma ti solleva fuori dal baule, ti ninna un attimo fra le sue braccia, ti bagna appena il viso con un fazzoletto intinto nell’acqua e ti porta fra le quinte. “Vai, tocca a te.” Io tutte le sere vivo la stessa situazione. Non è il mio lavoro questo, è la mia vita.»

Avevo iniziato a leggere questo libro in un momento particolarmente difficile e concitato di questa estate africana. L’avevo caricato sul tablet dicendomi: “comincio a leggerlo ma posso smettere quando voglio”. Ahimé, avrei dovuto saperlo che non ce l’avrei fatta a smettere. I libri di Dario Fo sono droga.
A mano a mano mi addentravo nelle pagine, avvertivo sempre più forte la sensazione di trovarmi  ancora sul palco della Palazzina Liberty di Milano, seduta a gambe incrociate in mezzo ad tanti altri che, come me, non avevano trovato posto in platea. Era la 1978 (o forse ’79). Mi trovavo lì per vedere   Dario e Franca recitare in Mistero Buffo. Per non perdermi nulla, nemmeno una sillaba, ruotavo il collo e trattenevo il respiro, aprendo così la strada ai problemi di cervicale che ancora mi affliggono e a un’insopprimibile passione per il teatro.
Il Nuovo manuale minimo dell’attore, che segue al Manuale dell’attore (Einaudi 2001) a cura di Franca Rame, è gioia pura di fare teatro. E’ passione, E’ amore. Episodi lontani si mescolano ad aneddoti gustosi e a vere e proprie lezioni di drammaturgia di cui, chi vuole calcare le scene o scrivere testi per il teatro, dovrebbe fare tesoro. Ci sono momenti di vita familiare nel retropalco, come  quando Sandra doveva recitare e contemporaneamente scappare dietro le quinte per allattare il figlio Jacopo. Ci sono segreti del mestiere generosamente svelati fin dal primo capitolo: Il primo problema: scoprire l’umore del pubblico. E che dire dei trucchi di Sandra per abbattere la ‘quarta parete’? E come si superano sul palcoscenico i vuoti di memoria? Come si recupera la battuta persa?
Ma non solo di teatro parla questo libro. Dentro c’è molto di più. Ci sono gli anni delle contestazioni e del terrorismo visto con gli occhi di chi aveva ben chiaro da che parte stare. Gli anni del capannone in via Colletta, degli spettacoli alla Camera del Lavoro e, più avanti, delle recite alla Palazzina Liberty affollata di sfrattati, accolti e protetti dalla rete Soccorso Rosso. Gli anni delle stragi e dell’anachico che vola dalla finestra a causa di un “malore attivo”.
Il giorno appresso [le dichiarazioni del questore Guida riguardo al coinvolgimento degli anarchici nella strage] ci siamo ritrovati in via Colletta e abbiamo preso posto sulle sedie della platea. Dovevamo discutere di un testo che io stavo approntando, ma i fatti che si stavano susseguendo mi obbligarono a sospendere la lettura. Franca, per fermare il chiacchiericcio che stava crescendo in quel momento, interruppe ognuno dicendo:«Scusate, i commenti su quello che sta accadendo
facciamoli ad alta voce, in modo che ognuno li possa sentire. […] Io tanto per cominciare vorrei rivolgere una domanda all’avvocato Giuliano Spazzali [membro di Soccorso Rosso Militante insieme con Dario E Franca] che sta qui davanti a me». «Prego Franca, qual è il problema?» E Franca di rimando: «Il fatto del fermo di Pinelli. È legale che un fermato venga trattenuto per tre giorni, seduto su una panca, senza che la polizia giustifichi le ragioni di quell’operazione?». E l’avvocato: «Brava Franca, hai azzeccato proprio il problema. La legge dice che dopo una verifica bisogna stendere subito un verbale e appresso, se non risultano motivi palesi di colpevolezza, il fermato deve essere immediatamente rilasciato». «Ah! Quindi la polizia ha abusato della propria autorità per compiere un atto illegale.» E l’avvocato risponde: «Esatto. Io avrei un’altra osservazione da compiere. Il questore ha detto in un primo tempo di aver dichiarato al Pinelli che il suo compagno Valpreda aveva riconosciuto di essere l’autore della strage. Ora, io ho telefonato stamattina al mio collega chiamato a difendere Valpreda e questi ha assicurato che il giorno prima, durante l’interrogatorio, Valpreda ha negato di aver ammesso la propria colpevolezza per quel crimine». Un «No!» generale esplode nella sala e io esclamo: «Ma qui salta fuori che il questore s’è inventato tutto!». «Vi dirò di più» segue l’avvocato. «Interrogato da un giornalista sulla sua falsa sceneggiata, stamattina il questore ha spiegato: “È vero, ho mentito, ma queste finzioni sono normali mezzi che noi della polizia usiamo da sempre con un sospettato di atti criminali per indurlo in contraddizione e quindi fargli ammettere la verità”.» […]. Franca riprende la parola: «Scusate, ma forse vi è sfuggita la variante espressa ieri dal questore. In un primo tempo dice che immediatamente, sconvolto dalla rivelazione della colpevolezza di Valpreda, Pinelli avrebbe esclamato: “È la fine dell’Anarchia” ed è lì che si è buttato dalla finestra spalancata. Poi, sempre il questore ci ripensa e si corregge: “In verità il gesto insensato del volo acrobatico dalla finestra è avvenuto due ore dopo circa”. E quindi, come ha sottolineato il giornalista che lo intervistava, ha avuto tutto il tempo di meditare se proprio fosse il caso di compiere l’atto insensato, come l’ha chiamato Guida. Alla fine, ripeto, dopo due ore, si alza ed esclama: “Lo faccio!”. Il livello della finestra è ad almeno un metro dal pavimento (altezza standard), lo ribadiscono tutti i giornali. Lui, che misura poco più di un metro e sessantacinque, non dice neanche: “Scusate, devo prendere la rincorsa” e, con uno scatto davvero da acrobata del Circo Togni, sorpassa col ventre e le gambe il metro e, oplà!, vola nel vuoto! […]. «Ma nessuno di voi agenti presenti, nessuno, dicevo, ha tentato di bloccare il Pinelli? Bastava allungare una mano dalla posizione da cui vi trovavate...»  «Io sono intervenuto. [dice un agente]. Tant’è che sono riuscito ad afferrare il suicida per un piede, ma purtroppo m’è rimasta in mano solo la scarpa, lui è precipitato.» «Come è possibile? È risaputo, l’ha detto un’inchiesta condotta dall’“Unità”, che l’anarchico ritrovato al suolo dopo pochi minuti mostrava ancora ai piedi tutte e due le scarpe. […] Gerardo D’Ambrosio mi sembra sia uscito completamente dalla logica. Infatti, al finale della sua indagine, così si esprime: “Il gesto sconsiderato che ha portato al suicidio il Pinelli è stato certamente determinato da un malore attivo. Quindi si
può ben dire che la morte dell’anarchico sia da considerarsi un atto accidentale”.»
Devo dire subito che questa dichiarazione del giudice D’Ambrosio mi ha suggerito il titolo dello spettacolo che, di lì a qualche tempo, ho messo in scena proprio a Milano al capannone di via Colletta. […] Il titolo che ho rubato al giudice D’Ambrosio è proprio Morte accidentale di un anarchico.

Cosa c’entra questo col teatro? C’entra, eccome, perché in questo libro si spazia dalla Commedia dell'arte alla scenotecnica, dall'aneddoto alla teoria, dall'abc della recitazione all'analisi del testo drammaturgico ma senza mai disgiungersi da quella grande commedia che è la vita fuori dalle scene.

Dario Fo, Franca Rame

NUOVO MANUALE MINIMO DELL’ATTORE

Chiarelettere, 233 pagine, 14,36 euro anziché 16.90 su internetbookshop. Disponibile anche in eBook a 9,99 euro