Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

“Il 2 febbraio 1977 a Roma, durante una manifestazione contro l’aggressione fascista del giorno precedente all’università in cui era rimasto ferito uno studente, Guido Bellachioma, colpito da un proiettile alla testa, a piazza Indipendenza c’è una sparatoria. Cadono a terra, feriti, due militanti di sinistra – Leonardo (Daddo) Fortuna e Paolo Tommasini – e un poliziotto. Nessuno ha visto certamente che cosa sia accaduto, nessuno sa precisamente come si siano svolti i fatti. C’è del sangue sull’asfalto, e i feriti sono in gravi condizioni”.

Questo libro è la storia di una fotografia. Una fotografia scomparsa per 20 anni e poi improvvisamente ricomparsa, scattata da Tano D’Amico, certamente il fotografo che più di ogni altro ha raccontato i movimenti giovanili nelle sue espressioni pubbliche e private. E’ una foto dura, difficile da spiegare a tutti, difficile da comprendere. Va certamente contestualizzata, ma nella sua crudezza - se pubblicata - avrebbe certamente marchiato a fuoco e criminalizzato un intero movimento che in un particolare di quella foto non poteva e forse non voleva riconoscersi. La foto - che è poi quella di copertina replicata assieme ad altre all’interno del volume - ritrae due militanti politici dell’area dell’autonomia operaia romana, due giovanissimi ex di Potere operaio, che la mattina del 2 febbraio 1977 cercano di allontanarsi dalla piazza nella quale sorge lo stabile dell’appena nato quotidiano La Repubblica. Uno dei due è stato ferito ad una gamba dai proiettili sparati da un poliziotto, l’altro, con coraggio, lo sostiene con la forza della disperazione. Il particolare è che quest’ultimo nella mano destra impugna due pistole, la sua e quella caduta all’amico. Nella foto successiva i due saranno entrambi a terra. Entrambi feriti da colpi di arma da fuoco. In precedenza - almeno stando alla sentenza che anni dopo li condannerà ad una lunga detenzione - i due avevano aperto il fuoco contro tre poliziotti in borghese (ferendone uno) a bordo di un’auto che voleva forzare la coda di un corteo di protesta, probabilmente scambiandoli per dei neofascisti.

Il libro non racconta solo la storia di quella foto fatta sparire con un comportamento certamente poco deontologico di chi la scattò, ma cerca di spiegare il perché di quella omissione (D’Amico scelse di comportarsi più da militante che da cronista). E poi racconta la storia di entrambi i protagonisti di quella fotografia, Paolo e Daddo (quest’ultimo scomparso prematuramente), per la libertà dei quali l’intero movimento del ’77 gridò a lungo in piazza. Dentro c’è anche la storia dell’inizio di una grande rivolta generazionale che per la prima volta nella storia dei movimenti italiani ribadirà la scelta delle armi ancora in due manifestazioni romane: il 21 aprile a Roma (morte a San Lorenzo dell’agente di polizia Settimio Passamonti) e il 14 maggio a Milano (morte dell’agente di polizia Antonino Custra, un’altra foto famosa ed emblematica). Morti seguite ad altre morti di giovani militanti politici: quella dell’11 marzo a Bologna (Francesco Lorusso, ucciso da un carabiniere) e del 12 maggio a Roma (Giorgiana Masi colpita da un poliziotto, forse in borghese e travestito da autonomo). (S.P.)

AA.VV.

DADDO E PAOLO. L’inizio della grande rivolta. Roma, piazza Indipendenza, 2 febbraio 1977

DeriveApprodi, 144 pagine, 17 euro anziché 20 su Internetbookshop

“Questo libro di Oliviero Beha è uno di quelli che lasciano il segno. Con la freddezza di un chirurgo, fa un’analisi caustica e spietata prendendo di mira i paradigmi della cultura contemporanea: la politica, la televisione (e la Rai), la pubblicità”. (Dalla prefazione di Franco Battiato).

“Dove ti giri ormai è tutto un culo. In senso stretto e in senso figurato. Che si tratti di Manuela Arcuri, di Valeria Marini o degli operai della Fiat, della pubblicità o dell’ermeneutica somatica, nel tritacarne (e sì…) del linguaggio anche visivo il culo ha una presenza preponderante”.

La parola ‘culo’ che campeggia sulla copertina di un libro serio, pubblicato da una casa editrice serissima come Chiarelettere, non deve far sobbalzare. Era già stata traghettata nella letteratura dal sommo Dante e oggi, sotto forma di metafora, è penetrata nella nostra vita culturale, sociale e soprattutto politica. L’associazione culo-Stivale non ha bisogno di essere spiegata. Basta pensare a quello che eravamo e a quello che siamo diventati soprattutto agli occhi di chi ci guarda da oltre frontiera.

Inutile nasconderci dietro a un dito: siamo l’unico Paese d’Europa che continua ad aggrapparsi alla retorica della famiglia benché fra le mura domestiche si facciano più vittime di quante ne faccia la mafia. Donne, soprattutto. Ma anche bambini da zero anni in su. Donne e bambini ammazzati, stuprati, nel migliore dei casi mandati in ospedale con lividi e ossa rotte. Eppure, tutti in piazza per il ‘Family day’ inventato da personaggi che si portano a casa le figlie altrui per squallidi ‘burlesque’ domestici. Siamo il paese della ‘politica sotto padrone’ nel quale molti (forse la maggioranza) degli aspiranti politici vengono inseriti nelle liste elettorali dietro raccomandazione di potenti che poi si aspettano di ottenere lucrosi appalti, favori, concessioni o, peggio, leggi ad personam. Siamo il paese dei furbi che non smettono di esserlo nemmeno dopo un passaggio nelle patrie galere, e che hanno fatto scuola insegnando ad altri furi e furbetti una verità da noi incontrovertibile: qualche mese ai domiciliari val bene un conto alle Cayman. Siamo il paese a cui la pubblicità ha insegnato che conta soltanto quello che appare mentre la politica urlata nei talkshow ha fatto credere che basta dire una cosa qualsiasi dai teleschermi, che basta citare un numero a caso perché quella cosa, quel numero, siano presi per veri da milioni di cittadini.

Ma si riuscirà prima o poi a uscire dal ‘cul de sac’ in cui siamo precipitati, e non solo economicamente, dal dopoguerra a oggi? Ce la farà lo Stivale a tappare il buco che macina miliardi insieme a intere generazioni e vanifica sforzi e risorse allontanando il Paese dalla civiltà del terzo millennio?

Potrebbe farcela, ma dovrebbe volerlo fortissimamente, spiega Oliviero Beha, grande osservatore dei costumi e della vita sociale. Prima però dovrebbe liberarsi dalla berlusconizzazione di massa.

“La resistenza a questa Berlusconizzazione senza prigionieri passa da qui: dai comportamenti responsabili di partigiani differenti, scesi dalle montagne della vita intricata di tutti i giorni.” Per dirla con parole terra a terra: gli italiani dovrebbero tornare a comportarsi da cittadini responsabili e onesti anche a costo di saltare all’indietro un paio di generazioni per recuperare quel senso della legalità, dell’onore, della parola data e della dignità che era non dei padri, ma dei nonni.

Oliviero Beha

IL CULO E LO STIVALE. I peggiori anni della nostra vita

Chiarelettere, 157 pagine, ,10,20 euro anziché 12 euro su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 9,99 euro

“Lo ammetto. Sono un mostro. Nel senso latino di monstrum. Un essere fuori dall’ordine naturale. Eh sì, perché sono l’unico giudice in Italia (credo al mondo) che può “vantare” una legge scritta apposta per lui, contro si lui”. (Incipit della prefazione di Gian Carlo Caselli)

“Una sera in televisione si parlava dell’esito del processo Andreotti. Un processo che comincia con l’autorizzazione a procedere del senato nel 1993 e si conclude (ma si conclude davvero?) in Cassazione oltre dieci anni dopo, il 15 ottobre 2004”.

Giulio Cavalli è un autore di cui si parla poco. Purtroppo avrebbe bisogno di molta più popolarità. Ne avrebbe bisogno non per far crescere il suo cachet, ma come si ha bisogno di un ombrello sotto un furioso temporale, perché solo la grande popolarità, che dà visibilità, potrebbe assicurargli una protezione efficiente contro le minacce della criminalità politica e mafiosa. Eletto, nel 2010, al Consiglio regionale di Lombardia, da molti anni vive sotto scorta per le sue opere, i suoi articoli, i suoi testi di teatro civile che recita da prim’attore. Un impegno politico a trecentosessanta gradi che, ovviamente, disturba chi ha interesse a mantenersi nell’ombra, ad alterare e a cancellare la memoria collettiva, a inserirsi nell’immaginario degli italiani per suggerire ‘verità’ di comodo. Giulio Cavalli non è Grillo. Non ha fondato un movimento. Non trascina le folle. Si limita a scrivere e a recitare pezzi di storia contenenti verità dimenticate, alterate, mistificate. In questo libro dal titolo delizioso perché gioca sul nome dei due protagonisti: autore e protagonista la verità vera è quella delle sentenze scritte dai giudici in tutti i gradi di giudizio ai quali è stato sottoposto il Divo Giulio, cioè Andreotti, il protagonista più potente e incontrastato della nostra storia dal dopoguerra fino a pochi anni fa. Sentenze, ribadite dalla Suprema corte, con verdetti che parlano di tutt’altro che di assoluzione, come i media di Stato hanno voluto far credere. Scrive Gian Carlo Caselli, capo della procura di Palermo dopo le stragi del 1993, il giudice che osò indagare e processare il Divo: “La stragrande maggioranza dei cittadini italiani è convinta che Andreotti sia vittima di una persecuzione che lo ha costretto a un doloroso calvario per l’accanimento giustizialista di un manipolo di manigoldi [i giudici]...” La verità (e non soltanto per Andreotti) sta da tutt’altra parte. E le sentenze, anche quella di primo grado del primo processo, la più favorevole all’imputato, parlano di “una realtà sconvolgente: scambi di favori e, soprattutto riunioni (per discutere di fatti criminali gravissimi) con capimafia del calibro di Stefano Bontade, provate dalle veridiche dichiarazioni di Francesco Marino Mannoia [il pentito sulla cuoi attendibilità non sono mai stati sollevati dubbi neanche dai garantisti del Pdl], testimone di uno di questi incontri. Realtà sconvolgenti consacrate (ribadisco) da una sentenza passata in giudicato”.

Ma allora, il Divo, è colpevole o no dei reati (connessi alla mafia) che gli sono stati ascritti, reati per i quali è stato indagato, processato e condannato senza mai scontare la pena? Per capirlo bisogna anzitutto conoscere la differenza fra ‘assoluzione’ e ‘non luogo a procedere per intervenuta prescrizione dei reati’. E per farlo, come nel gioco dell’Oca, bisogna tornare indietro di molte caselle. Bisogna risalire allo stravolgimento del codice di procedura penale con l’approvazione delle leggi stragarantiste, più note come ‘ad personam’, volute fortissimamente da un parlamento composto in larga misura da inquisiti e dai loro avvocati difensori. Soprattutto bisogna aver letto le carte processuali e averne colto lo spirito e la verità vera, quella che traspare dalle parole dei giudici e della quale, Giulio Cavalli, con i suoi libri e il suo teatro, cerca di non disperdere la memoria.

Giulio Cavalli

L’INNOCENZA DI GIULIO.

Prefazione di Gian Carlo Caselli

Chiarelettere, 149 pagine, , 9,35 euro anziché 11 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 7,99 euro

“Quando cantava era difficile credere che la morte le fosse così vicina.

La domestica mi fece entrare alla solita ora del pomeriggio. Dall’ingresso dell’appartamento si udiva una voce da soprano di notevole limpidezza”.

Questo non fiction novel non riguarda uno dei tanti misteri di casa nostra perché Wolfgang Amadeus Mozart era austriaco. Dunque, il velo che ancora avvolge la sua morte avrebbe poco o nulla a che fare con noi.

In teoria.

In realtà un filo tenace collega alla nostra storia certi dubbi che gravano sulla scomparsa del compositore, tema centrale di questo libro. Un filo con cui è stata tessuta una rete che si chiama Massoneria.

“Questo romanzo è basato su avvenimenti storici realmente accaduti.” Spiega l’autore nella sua postfazione. “Il Presentimento di Mozart della sua stessa morte, il suo rischioso piano per fondare una nuova loggia massonica e la sua missione a Berlino oggi sono oggetto di ricerche storiche...”

La vicenda ha inizio nell’ottobre 1829, quando, sentendosi vicina alla morte, Maria Anna Mozart detta “Nannerl”, sorella maggiore di Wolfgang, chiama a sé Carl Xavier, il figlio minore di suo fratello e di Constanze Weber, per prendere congedo da lui e consegnargli il diario segreto nel quale aveva annotato, giorno dopo giorno, tutti i dettagli dell’indagine da lei compiuta personalmente a Vienna per fare luce sulla morte del fratello.

Nella realtà, ricostruita dai biografi di Mozart attraverso lettere, atti ufficiali e documenti di ogni genere, la prima a spargere la voce di un possibile avvelenamento del Maestro fu sua moglie Constanze che per mesi, dopo il funerale, tenne banco nei salotti viennesi, raccontando di come il marito negli ultimi giorni della sua vita fosse assillato dalla paura di morire assassinato. Stando a quello che diceva e, soprattutto, che scriveva Constanze, Wolfgang stava male da settimane e attribuiva il grave malessere a un lento avvelenamento progressivo con acqua tofana.

Mesi dopo, un quotidiano tedesco scrisse di un gonfiore post mortem rilevato sul cadavere, insinuando per la prima volta il sospetto di un intrigo mortale. Ipotesi respinta dai biografi ufficiali e dai musicologi, per i quali quella di Wolfgang fu una morte naturale. A causarla sarebbero stati vari malanni: forti “febbri miliari” cioè reumatiche, nefrite, un riacutizzarsi dell’ipertiroidismo di cui Mozart soffriva dall’infanzia, un’intossicazione alimentare e la sifilide. I ricercatori tedeschi Dieter Kerner e Gunther Duda, medici, biografi e sostenitori della teoria del complotto, in anni recenti hanno parlato anche di avvelenamento progressivo da mercurio che però potrebbe essersi accumulato nell’organismo di Mozart in modo del tutto accidentale visto che nel ‘700 i sali di mercurio erano largamente impiegati nella preparazione di cosmetici e di diversi farmaci, fra cui quelli contro la lue. Qualche anno dopo la scomparsa di Mozart i sostenitori più accaniti del “complotto” credettero di individuare il mandante del presunto omicidio in Antonio Salieri, il compositore veneto che era Kapellmeister alla corte di Giuseppe II nello stesso periodo in cui vi si trovava anche Mozart. Un’ipotesi presto caduta per la fragilità del movente: la gelosia professionale e l’invidia, due sentimenti che non avevano ragione d’essere perché Salieri, a corte, occupava un posto ben più elevato di Mozart e non aveva nulla da temere. Sulla pista Salieri è stato costruito il bellissimo film ‘Amadeus’ di Milos Forman che ha il merito di aver introdotto, sia pure in modo romanzesco, la figura lugubre dell’Uomo in grigio che commissionò a Mozart la ‘Messa da Requiem’. Quell’uomo è realmente esistito e ha un nome: conte Franz von Walsegg-Stuppach, un giovane aristocratico che viveva in un castello vicino a Gloggnitz. La ‘Messa’ era destinata al funerale della giovanissima moglie Anna, malata senza speranza e con i giorni contati. Mozart avrebbe dovuto comporla in pochissimi giorni perché fosse pronta alla morte di lei. Non ce la fece naturalmente e Constanze dovette farla completare da un altro musicista: un ex allievo del marito, stroncando i progetti del nobile committente che avrebbe anche voluto attribuirsene la paternità.

Fra le tante piste che ancora oggi gli studiosi seguono nella speranza di fare luce sull’omicidio di Mozart - se davvero omicidio ci fu - resta aperta quella ripresa da questo libro: la pista massonica. E’ risaputo che nelle sue composizioni, soprattutto nell’opera Die zauberflote (il flauto magico) Mozart, illuminista e massone, affiliato alla loggia rosacrociana degli Illuminati, rivelò con impudenza molti segreti dei Liberi Muratori. Poiché massone era stato anche l’imperatore Giuseppe II, suo mecenate e protettore, il di lui successore, Leopoldo II, una volta salito al trono nel 1791, deciso a cancellare ogni traccia dello spirito illuminista e liberale del fratello, cominciando proprio dalle sue simpatie verso la massoneria, avrebbe espresso al capo della polizia segreta Pergen il desiderio di far tacere per sempre il compositore scomodo. E Pergen lo avrebbe prontamente accontentato, badando a far credere a un decesso naturale, perché le logge all’epoca erano ricche e potentissime mentre i sovrani erano perennemente indebitati. Questa affascinante ipotesi è stata sostenuta anche da Dieter Kerner, secondo il quale il lugubre ‘uomo in grigio’, identificato nel conte von Walsegg-Stuppach, sarebbe stato in realtà un inviato massonico incaricato di avvertire il compositore della minaccia che incombeva sulla sua persona. E stando a Constanze, Wolfgang lo prese sul serio, spaventandosi a morte. In seguito i Massoni furono perseguitati ovunque, incarcerati e uccisi perché considerati dal papa nemici della Chiesa finché il 20 aprile 1884 Leone XIII emise la Bolla con cui fu decretata la scomunica. E questo ci porta in Italia. A Roma.

Bellissimo romanzo scritto da un grande appassionato della musica di Mozart che mette in fila i fatti e offre, fra le tante, un’ipotesi sulla quale convergono le ricerche degli studiosi.

Matt B. Rees

LA PROFEZIA SEGRETA DI MOZART

Newton Compton, 319 pagine, 8,42 euro anziché 9,90 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 4,99 euro

“L’unico a non stringergli la mano era stato Manuele Acciardi. Niente condoglianze, nessuna frase di circostanza, neppure una firma nel registro che le pompe funebri avevano sistemato nell’androne, sul tavolino ricoperto di velluto viola. Attilio Defanti aveva lottato con se stesso per sfuggire alla consapevolezza di quell’insulto, ma non aveva potuto impedire che la bocca gli si riempisse di un disgusto stantio”.

Anche i miracoli sono misteri. Ma i miracoli che ci racconta Alessandro Zaccuri nella sua ultima fatica letteraria non sono tali. Stanno solo nella devozione esasperata di povere creature troppo piene di paure e narcisismo per poter affrontare la religione con la serenità dovuta. Troppo misere e troppo disperatamente in cerca di se stesse per evitare che il loro credo si trasformi in aberrazione.

“Dopo il miracolo” è un libro bellissimo, scritto con sapienza e al tempo stesso con leggerezza da un giornalista di razza (indimenticabili le sue conduzioni della trasmissione “Il grande talk” su Sat 2000, oggi Tv 2000 di proprietà della Cei). Un giornalista di formazione cattolica che ci precipita in una storia di provincia che comincia con l’orrendo suicidio di un giovanissimo, dodicesimo figlio di un signorotto fervente fedele che per un voto alla Madonna aveva deciso di mettere al mondo 12 creature. Ma è anche la storia di un prete con mille dubbi e tante inquietudini, protagonista suo malgrado di un presunto miracolo operato sulla figlia di una donna che dopo aver cercato la sua realizzazione nelle esperienze più alternative si trasforma in una sorta di santona per soddisfare le sue isterie. L’azione si svolge nei primi anni del pontificato di Giovanni Paolo II, in un clima di rinnovato fervore spirituale e di risveglio delle vocazioni. Nel seminario della Vrezza accadono eventi misteriosi. Indaga l’ispettore Canova che nel messaggio lasciato dal suicida scopre tante ombre sull’integrità del padre. E poi quella specie di santona che pianta un tendone davanti al seminario dando vita ad un vero e proprio assedio che vuole stanare don Alberto, brillante teologo fuggito da Roma e da una prestigiosa cattedra alla Lateranense come fosse inseguito da un segreto.

Forse raccontato così il libro risulta un po’ duro, ma la trama scorre invece senza intoppi, con qualche tratto di comicità e con grande sensibilità verso un finale illuminante. Che vuole rispondere ad una domanda forte, un grande mistero: cosa diventa Dio quando finisce nelle mani degli uomini? (S.P.)

Alessandro Zaccuri

DOPO IL MIRACOLO

Mondadori, 259 pagine, 16,15 euro anziché 19 su Internetbookshop. Diponibile anche in ebook a 9,99 euro.

“Giuseppe Balsamo nacque il 2 giugno 1743 a Palermo in una casupola, mai individuata, del vicolo della Perciata, nel chiassoso e turbolento rione dell’antico mercato di Ballarò”

Se c’è un personaggio rimasto misterioso nei secoli questi è Giuseppe Balsamo, detto Cagliostro, forse l’unico avventuriero della seconda metà del Settecento di cui si continua a scrivere ancora oggi. Anche lui c’entra poco con i misteri di cui ci occupiamo noi, ma il fascino perverso di questo ciarlatano resta comunque massimamente intrigante. Giuseppe Quatriglio, che da molti anni si occupa di questo personaggio e soprattutto della sua proiezione nel mondo contemporaneo, ci regala questo piccolo libro che è un saggio agile e godibile nel quale Cagliostro, per la prima volta, viene mostrato nella sua reale dimensione e messo a confronto con le personalità europee con le quali venne in contatto diretto: da Goethe a Casanova, da Caterina II di Russia a papa Pio VI.

Ma come fu possibile che, nel secolo dei Lumi, un abile truffatore che aveva cominciato la sua carriera taroccando biglietti del teatro e che arriverà a far credere di essere in possesso della formula dell’oro, sia riuscito nel tempo ad entrare nelle corti più esclusive d’Europa, passando per un mago prodigioso e stimato? Certamente Cagliostro dovette una parte delle sue fortune alla bellissima moglie, Lorenza Feliciani, che lo stesso sposò giovinetta e che certamente costituì una non indifferente attrattiva quando, ad eempio, Cagliostro conobbe il Casanova. I due si incontrarono in un albergo di Aix en Provence, mentre Cagliostro e Lorenza sostavano nel loro pellegrinaggio verso Santiago di Compostela. Di loro due Casanova scriverà nelle sue memorie, non a caso colpito più dalla donna che dall’uomo, quest’ultimo descritto solo come “piccolo di statura, ben fatto, portava sul volto abbastanza simpatico la baldanza, la sfrontatezza, l’impertinenza e la marioleria, proprio il contrario della moglie che spirava la nobiltà, la modestia, l’ingenuità e il pudore”. E ancora più avanti, sempre il Casanova, di fronte a Lorenza, resta estasiato dalla possibilità di “vedere la pulizia della sua pelle in altre parti oltre le braccia e le mani, delle quali intanto ci lasciava vedere gratis la bianchezza e la perfetta pulizia”.

Ancor più interessante l’incontro tra Cagliostro e Goethe che qui non vogliamo anticipare per non rovinare il piacere della scoperta al lettore. E ancor di più il ruolo dello stesso Cagliostro nella massoneria dell’epoca. Basti dire che Giuseppe Balsamo, che morirà nelle carceri vaticane al termine di un estenuante processo (ben 43 interrogatori) si era recato a Roma con un intento folle: conquistare il papa Pio VI ai misteri della massoneria di rito egiziano da lui fondata come un vero ordine religioso. Fu condannato per essere un propagatore di logge massoniche e per aver professato riti ereticali. (S.P.)

Giuseppe Quatriglio

IL ROMANZO DI CAGLIOSTRO

Rubettino, 160 pagine, 10,20 euro anziché 12 su Internetbookshop

“Posillipo.
Villa Aragona.
Un edificio neoclassico su tre livelli con oltre venti stanze. Attorno, ettari di terreno con frutteti, piscina, campi da gioco: l’ultima fetta di campagna urbana a ridosso del mare.
Il silenzio pomeridiano era spezzato solo da un rumore di fondo, prolungato e irritante. Un ronzio. Le trecentomila api raccolte negli alveari di Raul Aragona”.

Supponendo che l’errore di ortografia nel titolo sia voluto, in questo romanzo sono sintetizzate con approssimazione per difetto l’ignoranza arrogante, la spregiudicatezza, la totale mancanza di scrupoli, l’amoralità e l’ingordigia di chi ha fatto soldi a palate in modo disonesto, trascurando di educare i rampolli come si deve, di farli istruire e crescerli con qualche valore: condizioni sine qua non per riuscire a conservare dignità familiare e quattrini.

Tutto ruota attorno alla famiglia di Raul Aragona, grande elemosiniere della Dc, amico di banchieri e di politici come, va da sé, di personaggi legati alla malavita. Raul, apicoltore per passione, vive nella sua splendida villa di Posillipo ma non può godersi gli agi conquistati dopo una vita passata a strangolare poveracci con l’usura, ad accumulare quattrini col riciclaggio e accordi grondanti sangue stipulati con camorristi di spicco. Nel 1992, proprio quando ha lanciato un’Opa per dare la scalata a una società che lo consacrerà re del cemento, si scopre malato senza speranza di un cancro che gli toglie le forze. Che ne sarò della sua Aragona Invest? Siamo in piena Tangentopoli: il partito che lo ha sempre favorito sta scricchiolando sotto i colpi di Mani pulite, il figlio Manuel è uno sciocco arrogante pieno di alcol e cocaina che consuma le sue deboli forze, inseguendo la giovane moglie del padre per la quale nutre una vera ossessione. Il figliastro Matteo è un poliziotto ambizioso che, seguendo pista in un’indagine sulla corruzione, si imbatte nel groviglio di segreti paterni ignorando di essere manovrato dal ‘consigliori’ di suo padre il quale, a sua volta, è sul libro paga di un pericoloso boss.

Un romanzo ambizioso che, da un lato offre uno spaccato niente affatto lontano dalla realtà di quel mondo imprenditorial-malavitoso che ha stravolto il senso morale delle generazioni ‘anni ‘80’, quelle cresciute con l’unica dottrina del quattrino facile, ma che dall’altro ha sacrificato il filo narrativo, la fluidità, la godibilità alla voglia di stupire con un non fiction novel certamente interessante ma a spesso greve ed eccessivo.

Angelo Petrella

LE API RANDAGE

Garzanti, 468 pagine, 15,81 euro anziché 18,60 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 13,99 euro

“Ancora pochi minuti e sarebbero finalmente giunti a destinazione. Per strada tutto liscio. Né polizia né carabinieri. Berto guidava il furgone con una mano mentre nell’altra stringeva un pezzo di carta stropicciata sul quale si era frettolosamente annotato la strada da seguire. Grondava di sudore dalla testa alla pianta dei piedi e non vedeva l’ora che quella storia finisse al più presto”.

Un campanile, pochi condomini, qualche casa sparsa, lo stradone che taglia un due il paese e due bar, uno di fronte all’altro, a contendersi i pochi clienti a colpi di bianchini spruzzati, di grappe, sambuche e ombrette. Il Bar Sport, gestito da uno del luogo, e il Bar Centrale in mano ai cinesi: due realtà costanti, immutabili come il tozzo campanile, la polvere, l’afa e le zanzare.

Quanti ce ne sono di paesi così dal Piemonte al Triveneto? Quante volte sarà capitato a chi vive in città di pensare, transitando su quegli stradoni tutti uguali, davanti a quei bar affollati di pensionati con gli occhi vuoti: qui non vivrei neanche dipinto sul muro. Qui non succede mai niente…

Piano con “non succede mai niente”. Lungo quegli stradoni polverosi costellati da autovelox arancione di cose ne succedono, eccome. Vengono rapite e uccise ragazzine. Si spaccia droga. Si comprano e si vendono braccia da lavoro, si porta il santo in processione con la banda. In quei bar, fra una briscola e un bianchino, si prendono accordi per traffici di ogni genere. Si progettano spedizioni punitive contro gli extracomunitari, si inventano passatempi per stomaci robusti. Né più né meno come nelle periferie delle metropoli.

San Vito del Veneto, un micro paese sotto la giurisdizione del Comando carabinieri di Noventa, è esattamente così: nebbia e gelo d’inverno. Afa, polvere e zanzare da maggio a ottobre. E brutti ceffi in giro: i ‘tosi’. Solo che trattandosi di ceffi nati e cresciuti lì, sotto gli occhi del parroco e delle beghine, nessuno li prende sul serio. Nessuno fa caso a quello che combinano, preferendo puntare il dito contro una kumpanie di Rom diventata stanziale e una micro comunità cinese che confeziona borsette nello scantinato del bar preso in gestione. Due etnie che, comunque, quanto a criminalità neanche loro scherzano.

Bel pulp noir di costume che, a parte qualche eccesso, rende molto bene lo spirito trucido e sgangherato del profondo Nord affondato fra vigneti e campi di mais. Una provincia affollata da Cayenne, Suv e Carrera guidate da balordi senza educazione, senza cultura e senza speranza.

Matteo Righetto

SAVANA PADANA

Tea, 133 pagine, 8,50 euro anziché 10 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 6,99 euro

“Il controllore era quasi stupito che il ragazzo goth tranquillamente addormentato in mezzo al frastuono di una scolaresca avesse il biglietto in regola.

Per dormire così, con la testa abbandonata contro la scomoda imbottitura del sedile e le gambe ripiegate da un lato, doveva essere come minimo un drogato.

Invece, quando l’aveva cautamente scrollato, il ragazzo l’aveva fissato con due occhietti grigi assonnati ma lucidi e gli aveva mostrato il biglietto. Il controllore a questo punto si era reso conto di due cose. Innanzitutto, il ragazzo non era così giovane come gli era sembrato in un primo momento e doveva essere all’incirca sui trentacinque. Inoltre, il portafogli da cui aveva tirato fuori il biglietto era uno di quelli col distintivo delle forze dell’ordine”.

Detesto il libri che pretendono di esplorare l’aldilà e di fraternizzare con i suoi inquilini, angeli e demoni. L’unico che sia riuscito a parlare della vita ultraterrena in modo convincente e senza finire nella comicità involontaria è stato Dante Alighieri. Tutto il resto è banalità. Ogni tanto però spuntano librini simpatici e accattivanti che pur con i limiti del solo intrattenimento si fanno leggere fino in fondo. E’ il caso di ‘Satanisti perbene’ che qualche nota di colore, qualche spunto di riflessione e una certa ironia li introduce. Per esempio: che rapporto c’è fra i tatuaggi e l’appartenenza alle sette? Molti si fanno disegnare la pelle per noia, spirito di imitazione, vanità. Scelgono temi e motivi dal catalogo del tatuatore e dicono okay, questo mi piace. E’ un tribale? E che significa? E’ di moda?

Anche fra certa musica, certi locali ci sono legami con sette pericolose, con gruppi nei quali si fa crescere fra gli adepti una smania di emozioni forti che arriva fino all’omicidio. E qui, le famigerate ‘Bestie di Satana’ sicuramente responsabili di un numero di decessi, fra omicidi efferati, incidenti sospetti e suicidi, non ancora accertato, non sono un’invenzione degli scrittori di thriller. In questo romanzo, scritto nell’unico modo possibile per chi affronta certi temi: con ironia, si ritrovano molti elementi appartenenti alla cronaca, a cominciare dalla ragazza sepolta nel bosco insieme con un gallo nero per finire con la ragazzina rapita che tiene col fiato sospeso un’intera città.

Susanna Raule

SATANISTI PER BENE. Un nuovo caso per l’ispettore Sensi

Salani, 350 pagine, 12,66 euro anziché 14,90 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 9,99 euro

“Questo libro nasce in classe. Non avrei mai potuto scrivere queste pagine senza i bambini. Sono loro i protagonisti. Cinque anni tra i banchi mi hanno insegnato che i miei unici datori di lavoro sono loro: i miei allievi. Non avrei mai pensato nella mia vita di fare il maestro. Sono finito alle magistrali per sbaglio”.

Ecco un grande mistero italiano: la scuola [pubblica] che resiste nonostante i colpi di machete sferrati dal governo con la sottrazione di fondi a vantaggio delle private, con leggi e riforme farraginose, spesso inapplicabili, con programmi vecchi, con edifici fatiscenti talvolta inagibili, con doppi e tripli turni, insegnanti sottopagati e precari a vita; la scuola [formatrice] che resiste nonostante le ingerenze dei genitori iperprotettivi, insofferenti dei provvedimenti disciplinari presi dagli insegnanti: per un semplice rimprovero, per un brutto voto e non parliamo delle sospensioni per atti di indisciplina gravissimi, oggi è normale andare dall’avvocato per chiedere la testa dell’insegnate o ricorrere al TAR se agli esami è stato bocciato; la scuola [multietnica] che resiste nonostante l’intolleranza strisciante o palese nei confronti dell’inserimento nelle classi di bambini rom, africani, cinesi; nonostante la resistenza dei pubblici amministratori a fornire pasti differenziati nel rispetto della religione e della cultura di tutti gli alunni.

E si potrebbe continuare.

Alex Corlazzoli, arrivato al grande giornalismo dopo essere stato maestro di scuola precario come la maggior parte dei maestri di oggi, ha riversato in queste pagine l’esperienza dei suoi anni in cattedra. Ne è nata una grande storia, anzi, un mosaico di storie in cui si intrecciano dialoghi come questo che riportiamo fedelmente:

“– Maestro, io sono musulmano, e voi?

– Be’, qui in Italia la maggior parte degli italiani è cristiana.

– Il mio Dio è buono.

– Anche il Dio dei cristiani. Non esiste un Dio cattivo, Ahmed.

– Senti, maestro, ma il vostro Dio dove sta?

– In cielo.

– No. No. È impossibile. Nel cielo c’è anche il mio. Forse il tuo sta sul tuo cielo qui in Italia e il mio sul cielo della Siria.”

“La classe è il mio mondo,” spiega Alex. “C’è il figlio dell’operaio, che dopo otto ore di lavoro in catena di montaggio non ha alcuna voglia di aiutare il bambino a fare i compiti, ma sogna per lui un’occupazione diversa dalla propria. C’è chi arriva dall’azienda agricola: il bisnonno faceva il mungitore, il nonno aveva qualche mucca e qualche pecora, gli zii hanno sempre fatto i contadini e ora il padre ha deciso per il figlio, ancora prima che nasca, che studierà Casearia alle superiori. Non può mancare quello che ha quattro soldi e arriva a scuola con il Suv, la cartella, l’astuccio nuovo e le ultime figurine dei Pokemon: per lui c’è già l’iscrizione a medicina o a giurisprudenza. Ci sono da qualche anno i migranti: indiani, peruviani, albanesi, romeni, marocchini, tunisini. Sono i figli degli stranieri arrivati con i barconi. Non sanno nemmeno come il loro padre sia venuto in Italia. Parlano l’arabo e l’italiano. Mangiano il kebab e gli spaghetti. Pregano Allah o Ganesh, ma non s’infastidiscono per il crocefisso in classe. La scuola è il mondo. I bambini sono i miei datori di lavoro. Sono loro a dettarmi il programma. Certo, c’è quello ufficiale con la terminologia didattica: obiettivi formativi, standard e contenuti di apprendimento, metodologia, mezzi, soluzioni organizzative, tempi, monitoraggio competenze, prove di verifica, tempistiche. Lo compiliamo ogni anno. Una copia nel registro per i genitori. L’altra nel cassetto. Alla fine della scuola, a volte, sono stato «obbligato» a scrivere: «Il programma è stato svolto per il 73 per cento», come se si potesse misurare la quantità ma non la qualità dell’insegnamento.”

E se, nonostante tutto, la scuola continua a resistere, non è solo un mistero. E’ un miracolo.

Alex Corlazzoli

LA SCUOLA CHE RESISTE. Storie di un maestro di provincia

Chiarelettere, 176 pagine, 11,05 euro anziché 13 su Internetbookshop. Disponibile anche in ebook a 9,99 euro