La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.
Incipit: Era la prima volta che veniva ammesso a un vertice di quella importanza. Una riunione plenaria delle Locali in un punto imprecisato della periferia sud di Milano. Un privilegio che avrebbe potuto costargli la vita se qualcuno fra i convocati avesse avuto la sensazione di essere osservato un po’ più di quel che consentiva la creanza. Su questo punto mastro Pinu, che l’aveva cresciuto, era sempre stato intransigente.
“Ninnì, arricchia mm’u! Testa alta e occhi bassi, fai la vita a grande passi”.
Glielo ripeteva ogni volta che capitava l’occasione e di solito aggiungeva il secondo comandamento: “nari ‘u viniri ninti t’hai da pirdiri”.
Sacrosantamente vero. Ne aveva visti tanti, mastro Pinu, finire al camposanto per essersi soffermati un istante di troppo sulla faccia sbagliata. A scanso di incidenti aveva inchiodato in diverse al ragazzo diverse regole prima di battezzarlo picciotto d’onore.
Doveva stare muto sempre. E confondersi con l’ambiente mentre tenev occhi e orecchi ben aperti per osservare, ascoltare. Imparare.
Di solito non si fa. Recensire un libro del recensore ufficiale di misteriditalia.it a qualcuno potrebbe sembrare poco elegante. Ma Adele non mi ha chiesto nulla e quindi mi sento sollevato da qualsiasi favoritismo e libero di recensire questo suo libro.
Lo faccio, in primo luogo, perché è un libro bellissimo, scritto con maestria e soprattutto con grande passione.
Attenzione questo libro non è un romanzo e non è neppure un saggio, ma qualcosa di più. Tecnicamente si definisce non ficton novel. E’ cioè un saggio, rigoroso e documentatissimo, ma scritto con le libertà che solo un romanzo può concedere all’autore. E’ un noir avvincente che si legge tutto di un fiato, ma basato su fatti veri, su un lungo lavorio su rapporti di polizia e sentenze della magistratura. Tratta di quella che ormai è sotto gli occhi di tutti: la totale penetrazione nel nord d’Italia delle attività criminali della mafia più potente del mondo: la ‘Ndrangheta.
L’azione è ambientata a Milano dove i crimini veri di questa cosca demoniaca si sono realmente svolti. Protagonista è un killer folle che si aggira nelle nebbie della periferia cittadina per regolare una serie di conti spesso non suoi. La scrittura è tagliente come una lama di rasoio e la narrazione è così avvincente che a me è capitato di accelerare il passo verso casa per poter riprendere il filo del suo svolgimento.
Raccontare, anche se a grandi linee, un saggio/romanzo è come svelare la sorpresa contenuta in un pacco regalo.
Perciò fidatevi. E leggete questo nuovo romanzo criminale che oscilla tra due figure: un killer solitario, come detto, ma anche un commissario che non si fida di nessuno, neppure dei suoi colleghi. Perché la ‘Ndrangheta non è solo un accidente malavitoso, ma è un cancro che tutto corrompe. In primis la società in cui viviamo. (Sandro Provvisionato)
Adele Marini
A MILANO SI MUORE COSI’
Fratelli Frilli editori, 351, 12,66 euro anziché 14,90 su internetbookshop
Incipit:Questo libro. «Io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente. Io sono assolutamente innocente.» Silvio Berlusconi lo dice, lo ripete, lo ribadisce. Un concetto che è il cuore del videomessaggio di poco più di sedici minuti distribuito alle televisioni nel tardo pomeriggio del 18 settembre 2013. Sedici minuti di recriminazioni, accuse, proclami. Variazioni dello stesso messaggio. L’unico che davvero preme al Cavaliere. Per lui conta una sola cosa, quella che non a caso scandisce allo scoccare dell’ottavo minuto. «Io sono assolutamente innocente.»
Dal suo podio televisivo, Berlusconi attacca la magistratura, che lo ha condannato «con una sentenza mostruosa e politica». Denuncia la sinistra, colpevole di volerlo eliminare «usando il suo braccio giudiziario». Lancia un appello «agli italiani onesti, perbene», affinché reagiscano. Li invita a schierarsi al suo fianco. Perché in quei sedici minuti Silvio Berlusconi annuncia la rinascita di Forza Italia. I vent’anni passati dall’esordio in politica hanno cancellato dal suo volto il grande e inossidabile sorriso del 1994. Se allora esortava i cittadini a costruire con lui «un nuovo miracolo italiano», oggi li invita con risentimento
a ribellarsi contro una sentenza della Suprema corte di cassazione.
«Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere, e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi 20.000 miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 a oggi, dal gruppo che ho fondato.» A riprova del complotto, Berlusconi sbandiera la presunta esiguità della frode per cui è stato condannato. Un’evasione fiscale di poco più di 7 milioni 300.000 euro. Nulla, per un miliardario come lui. Ma la realtà è molto diversa dalle favole televisive. Quella frode è l’unica parte di processo che è riuscita a sopravvivere alla legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dalla sua maggioranza parlamentare, che ha dimezzato i termini di «prescrizione» dei reati. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma ha diritto a restare impunito perché il processo è durato troppo. È una delle trentotto leggi che nel corso di un
ventennio hanno cancellato reati, azzerato prove, inventato scudi e immunità politiche, sospeso processi e ritardato sentenze con norme dichiarate incostituzionali.
Una notizia, arrivata prima che si votasse in senato per la decadenza di Silvio Berlusconi dalle cariche parlamentari, parla di nuovi documenti e di testimoni che ne dimostrerebbero l’innocenza e sarebbero materia per la revisione del processo. Staremo a vedere. Intanto vale la pena di sottolineare che se i magistrati, sedici su sedici, si sono trovati d’accordo nell’affermare che il Cavaliere ha immagazzinato somme immense nei blindatissimi paradisi off shore, sottraendole al fisco con equilibrismi abbondantemente oltre i limiti della legalità, qualche carta devono pur averla avuta in mano.
Sì, le carte le ci sono e sono prove inoppugnabili. Questo libro, ripercorrendo le tappe dell’evasione infinita e dell’accumulo senza confini, riesce a svelare particolari sconosciuti che vanno al di là del peggio che si possa immaginare. Una storia di ingordigia infinita, cominciata prima della discesa in politica «del cittadino più perseguitato della storia», proseguita impunemente durante i suoi governi e quelli altrui, e favorita da leggi ad hoc. Ecco, giusto per un promemoria, l’elenco delle leggi che fino a oggi gli hanno assicurato ricchezza e impunità.
1990: Legge Mammì n.223/’90. “Frequenze radiotelevisive”. E’ la madre di tutte le violazioni successive riguardanti l’informazione. 1994: decreto Biondi “Salva ladri”. 1994: Legge Tremonti “ad usum Finivest”. 1997: Legge Maccanico “proroga della Mammì pro rete4”; 1999: D’Alema salva-Rete4. 1999: Gip-Gup “pro imputati IMI-Sir e Sme”. 2001: Rogatorie “No alle prove giunte dall’estero”. 2002: Depenalizzazione del falso in bilancio e di altri reati finanziari. 2001: Mandato di cattura europeo “no alla ratifica”. 2001: trasferimento immediato del giudice Brambilla ad altro incarico per bloccare il processo Sme-Ariosto. 2002: Cirami “Trasloco dei processi a Brescia”. 2003: Lodo Maccanico-Schifani: immunità totale per le alte cariche dello Stato. 2005: Ex Cirielli ovvero “Niente arresti dopo i 70 anni”. 2002: Condono fiscale. 2003: Condono anche per coimputati in processi per frode ed evasione fiscale. 2006: Legge Pecorella “Inappellabilità delle prescrizioni e delle assoluzioni”. 2002: Legge Frattini sul conflitto di interessi: “si può governare se si ha solo ‘la mera proprietà’”. 2003: Legge Gasparri-1 o “Salva Rete4”. 2003: Decreto Berlusconi, ancora “salva-Rete4” . 2004: Legge Gasparri-2, sempre “salva rete4”. 2004: “Decoder di Stato”. 2003: ancora Decoder di Stato con il “Contributo statale per l’acquisto del decoder”. Fra i beneficiati Paolo Berlusconi. 2003: sempre “Salva-decoder dalle frodi ad usum pay tv”. 2002: Salva-Milan con i “passivi delle società maggiori spalmati negli anni”. 2006: Salva-diritti tv, ovvero “grandi vantaggi per il calcio di serie A” .2001: abolizione della tassa di successione anche sui maxi-patrimoni. 2004: Auto riduzione fiscale con “aliquote più basse per gli straricchi”. 2003: Plusvalenze esentasse. 2004: Auto condono per villa Certosa in due decreti. 2005: Pro Mediolanum con “Apertura di sportelli alle poste per Mediolanum”. 2005: Pro Mondadori-1 con Consegne di libri scolastici gestite da Mondolibri Bol tramite le Poste. 2005: Pro Mondadori-2 con “Fondi a Mondadori e Stanca per operazione eBook”. 2006: Indulto. 2008: Lodo Alfano con “Sospensione sine die dei processi per le alte cariche. 2008: Maggiorazione IVA per Sky. 2009: Meno spot per Sky. 2009:Possibilità di acquisire più azioni “Pro Fininvest”. 2010: Pro listam Pdl “decreto per sanare illeciti elettorali nel Lazio”. 2010”: Legittimo impedimento “per scansare le udienze del processo Mills. [fonte Marco Travaglio]
Nonostante questa frenetica attività parlamentare pro sé, stando alla sentenza della Cassazione Berlusconi di illeciti ne avrebbe commessi con certezza almeno due: frode ed evasione ai danni dello Stato. E le prove, a dispetto di quanto proclamano i fedelissimi, ci sono.
Di quelle prove, questo libro riproduce diversi atti originali dai quali emerge che al termine della loro gigantesca caccia al tesoro i magistrati e gli investigatori hanno trovato il nascondiglio della maggior parte di denaro nero: una gigantesca grotta di Alì Babà estesa sui continenti e fondata su una rete intricatissima di società impenetrabili.
Dalla sentenza definitiva non si scappa. I magistrati del processo Mediaset hanno scritto, nelle motivazioni della sentenza di condanna, che Berlusconi ha immagazzinato somme immense e il libro di Biondani e Porcedda riporta le prove dell’esistenza di questo tesoro illecito e sottratto al fisco, facendo anche i nomi delle società offshore che Fininvest ha riempito per anni di fondi riservati. Ci sono anche notizie relative ai contatti con avvocati, affaristi e faccendieri che hanno aiutato il cavaliere mentre era al governo, e i suoi uomini, a occultare denaro e prove. Tutto nero su bianco: documenti ufficiali a partire dai quali gli autori raccontano come in un romanzo l’incredibile viaggio di magistrati e investigatori alla ricerca del malloppo. Uno slalom fra documenti scomparsi, archivi blindati, testimoni reticenti, testimoni smemorati, testimoni corrotti, autorità straniere che non collaborano.
Partito come il racconto di una maxi evasione su scala planetaria durata oltre due decenni, questo libro è diventato strada facendo la fotografia di un sistema di illegalità così vasta, capillare e diffusa da essere accettata da metà dei cittadini italiani in modo cieco e del tutto acritico, nonostante sia palese se un individuo si arricchisce in modo così spropositato l’intera collettività viene depauperata.
Paolo Biondani e Carlo Porcedda
IL CAVALIERE NERO. Il tesoro nascosto di Silvio Berlusconi
Chiarelettere, pagine 192, 11,82 euro anziché 13,90 (eBook a 9,99) su internetbookshop
Incipit: La faida e La mafia. Ero entrato a far parte della DDA di Bari.
Nel marzo del 2003 Mimmo Marzano, procuratore a Bari e capo della DDA, mi assegna il territorio di Foggia e del Gargano.
Mi metto al lavoro.
Decine e decine di omicidi insoluti; eppure facili da leggere; l’uno in risposta all’altro; una scia di sangue impressionante. Si parlava di lotta tra pastori, tra allevatori, tra soggetti criminali. Mi impressionava il fatto che la parola mafia, quasi magica, quella che evoca scenari ben diversi (organizzazioni dedite al controllo del territorio, che aspirano alla leadership nel territorio e che ammazzano per questo) non veniva mai pronunciata.
Bastava ascoltare i resoconti giornalistici e televisivi dell’epoca: non c’era mafia sul Gargano, ma solo la faida, parola che evocava meri piccoli contrasti familistici, di gruppi che si ammazzavano per un terreno, per un gregge.
Quanto eravamo distanti dalla mafia!
La faida è la possibilità, per un privato, di ottenere soddisfazione per la lesione di un proprio diritto, ricorrendo all’uso della forza.
La mafia del Gargano è definita, in questo libro, ‘innominabile’ nel senso che non se ne è parlato e non se ne parla preferendo far rientrare crimini come gli omicidi a catena, le scomparse di persone con tutte le caratteristiche della lupara bianca, i sequestri, gli azzoppamenti del bestiame, le distruzioni di oliveti e vigneti nella definizione “faida”, un termine inadeguato, perché si riferisce a crimini occasionali, a regolamenti di conti fra allevatori e contadini. E anche perché è sottovalutata dai media rispetto alle “sorelle maggiori” Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra. E invece esiste ed è un’organizzazione tentacolare e subdola che negli anni ha infiltrato l’intero promontorio garganico prendendone il controllo.
L’autore di questo saggio, tanto sorprendete quanto inaspettato almeno per il grande pubblico, è il procuratore capo di Lucera, un uomo di trincea che sa bene di cosa parla quando definisce questa organizzazione criminale che sta alla sacra corona unita come le stidde stavano a cosa nostra: « Violenta, sopraffattrice e sterminatrice».
Non è nata oggi la mafia Garganica. Da oltre trent’anni terrorizza la zona con sgarri e vendette. Sangue che chiama sangue in una catena infinita.
Partita come faida fra le famiglie Primosa-Alfieri e Libergolis per la supremazia e il controllo di pascoli e greggi, oggi è diventata un’industria del crimine per il controllo di traffici illeciti, di estorsioni e intimidazioni, omicidi su commissione. Tutto all’ombra del santuario di San Michele Arcangelo, a Monte Sant’Arcangelo, luogo di culto di riferimento.
«L’origine della mattanza si può far risalire all’assassinio di Lorenzo Ricucci, allevatore », spiega il procuratore . « È il 30 dicembre 1978. Ricucci è in compagnia del figlio Salvatore, anch’egli ucciso allo stesso modo. I due Si stanno recando verso la masseria del figlio quando Salvatore sente un colpo di fucile e non vede più il padre».
L’uomo è a terra poco distante, in un lago di sangue. La stessa sorte tocca al figlio. Ad ammazzare i due, considerati vicini al potente clan familiare dei Pianosa, sono stati Francesco e Pasquale Li Bergolis. Movente: una violenta discussione per motivi di sconfinamento dal pascolo.
Da allora nel Gargano si è cominciato ad ammazzare e a far ammazzare, anche inviando killer in trasferta, finché, di omicidio in omicidio, lo scontro ha perso la memoria e i connotati della faida familiare per assumere quelli più truculenti dell’organizzazione mafiosa tersa a estendere la propria rete su tutto il promontorio, fino al mare.
Questo libro, che descrive con mano leggera episodi di atroce crudeltà, era il tassello che mancava per capire questo Paese che si dice Occidentale ed evoluto ma non riesce a liberarsi della ferocia primitiva che impedisce quella civiltà che si fonda sul rispetto dei diritti e sull’applicazione delle leggi.
Domenico Seccia
LA MAFIA INNOMINABILE
La Meridiana, pagine 164, 13,60 euro anziché 16,00 su internetbookshop
Incipit (dalla prefazione di Ferruccio Pinotti): L’arrembaggio dei laici. Uno dei fenomeni più ardui e problematici che papa Francesco dovrà affrontare nel suo pontificato è l’esplosione di una serie di movimenti laicali – vere e proprie “chiese nella Chiesa” – che minano l’unita ecclesiale e hanno generato quella “guerra per bande” che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI. Queste realtà si configurano ormai come lobby che con la loro sete di potere hanno portato la Chiesa sull’orlo dell’implosione. Non a caso Bergoglio ha indicato il “carrierismo” come uno dei mali che travagliano più gravemente il mondo ecclesiale. Per questa ragione l’inchiesta della giornalista e scrittrice Carlotta Zavattiero si configura come un contributo importante e prezioso su un tema centrale non solo per la vita della Chiesa, ma per l’intera società italiana e internazionale. Zavattiero ha scelto di analizzare sette realtà, ovvero sei movimenti ecclesiali e una prelatura. Sono i Neocatecumenali, i Legionari di Cristo, i Focolari, Comunione e liberazione ,l’Opus Dei, il Rinnovamento nello Spirito santo e la Comunità di Sant’Egido.
È ora di cambiare. Il 27 aprile 2013, a poco più di un mese dalla sua elezione,
papa Francesco dichiara al mondo di volere una Chiesa aperta. Una comunità chiusa e sicura di sé, dice, ama la calunnia, il chiacchiericcio, e cerca la ribalta patteggiando col potere e con il denaro.
Il 19 maggio 2013, domenica di Pentecoste, le parole del papa sono ancora più forti e radicali. Quel giorno in piazza San Pietro ci sono oltre 150.000 persone appartenenti a 150 fra movimenti, associazioni, nuove comunità e aggregazioni laicali. Arrivano a Roma da ogni parte del mondo per la Giornata dei movimenti ecclesiali. Per l’occasione papa Francesco, che di solito è molto conciso nei suoi interventi, tiene il discorso più lungo mai fatto sino a quel momento: 38 minuti.
La parola ‘lobby’ nell’immaginario popolare ha un significato fosco, non proprio negativo ma certamente ambiguo. Con questo termine si designano infatti «quei gruppi di persone che, senza appartenere a un corpo legislativo e senza incarichi di governo, si propongono di esercitare la loro influenza su chi ha facoltà di decisioni politiche, per ottenere l’emanazione di provvedimenti normativi, in proprio favore o dei loro clienti, riguardo a determinati problemi o interessi», ha spiegato la stessa autrice in un’intervista rilasciata a Pierluigi Mele di Rai news 24.
Applicato ai gruppi, alle associazioni, congregazioni, fratellanze, comunioni eccetera che affollano il Vaticano e tutte le sue emanazioni nel mondo, il termine lobby risulta riduttivo perché molti alti esponenti sono in politica, eccome! Da sempre hanno ruoli di primo piano e accentrano un forte potere legislativo e amministrativo. Basti pensare al premier Enrico Letta, cattolico di ferro, che appartiene all’Intergruppo per la Sussidiarietà, emanazione di Cl, ai ministri Andrea Riccardi (Comunità di Sant’Egidio), Graziano Delrio (Cammino neocatecumenale), Mario Mauro anch’egli di Comunione e liberazione insieme con Flavio Zanonato (alla faccia di chi vorrebbe uno Stato laico). E che dire di Paola Binetti, numeraria dell’Opus Dei; dell’onorevole del Pd Maria Letizia De Torre dei Focolari, di Raffaello Vignali del Pdl ex presidente della Compagnia delle Opere, di Formigoni ‘memor domini’ sempre di Cl, di Raffaele Bonanni, sindacalista della Cisl che fa parte del Cammino neocatecumenale, come il ministro Graziano Delrio? E la lista non finisce qui.
Dunque, le lobby del Vaticano, oggi, più che baluardi della fede e divulgatrici della parola di Dio sono gruppi di potere politico ed economico che fanno il bello e il cattivo tempo con i governi e la pubblica amministrazione. Molte, anzi, quasi tutte, sono nate sotto il pontificato di Giovanni Paolo II che le ha agevolate e sostenute in funzione anticomunista favorendo un’asse che porta fino a Silvio Berlusconi. Ma sarebbe riduttivo accomunare tutti questi gruppi, movimenti e associazioni di fede sotto l’ombrello delle ‘lobby’ perché se è pur vero che tutti, più o meno, perseguono lo stesso fine, ciascuno fa per sé, senza contatti e intercambi a livello di base. Si tratta infatti di entità chiuse, quasi segrete (Opus Dei), endogamiche e permeate di integralismo. Dunque, come ci si può stupire se siamo sempre in ritardo con la storia quando si tratta di discutere in parlamento questioni etiche? Se la Chiesa continua ad avere benefici ed agevolazioni fiscali, prebende ed elargizioni da uno Stato che poi non ha denaro per i servizi essenziali? Se la scuola pubblica è stata ridotta alla fame mentre le ‘paritarie’ cattoliche ricevono laute sovvenzioni?
Questo libro offre una panoramica molto ampia delle sette principali entità che affollano il vaticano e si litigano il potere. Ne traccia la storia e l’incredibile ascesa, appoggiata dal Vaticano, dando finalmente una chiave di lettura a molti misteri, a cominciare dalle dimissioni di Papa Benedetto XVI. Ma offre anche un’immagine limpida di papa Francesco, l’uomo che col suo rigore morale e la sua visione internazionale della religione cattolica è deciso a spazzare il cammino della chiesa da queste zavorre per portare la comunità dei fedeli fuori dal Medioevo. Un papa determinato, ma anche così prudente e avveduto da tenersi lontano dagli splendidi silenzi del Vaticano, preferendo alloggiare nella più modesta residenza di santa Marta.
Un libro da leggere. Assolutamente!
Carlotta Zavattero
LE LOBBY DEL VATICANO. I gruppi integralisti che frenano la rivoluzione di papa Francesco
Prefazione di Ferruccio Pinotti
Chiarelettere, pagine 181, 11,05 euro anziché 13,00 su internetbookshop
Incipit: (dalla prefazione di Andrea G. Pinketts): Alla fine sono strade. Milano, 12 novembre 2013 (il giorno in cui Lazzaro risorge).
Alla fine sono solo strade. Non è il Grande Raccordo Anulare. E’ l’anello di fidanzamento con una vecchia ragazza che te ne ha fatte passare di tutti i colori, soffermandosi sul noir.
Milano è la fidanzata.
Si sveglia presto anche se ha dormito poco. Lo stesso tempo di sonno alcolico o causato da una botta in testa che condividono i suoi amanti.
Una raccolta di racconti è il “Red harvest” di scrittori che hanno una sacralità profana quando i loro antieroi vanno a mietere il grano. Che siano ex mercenari, professionisti ineccepibili tranne che per la morale comune, detective scalcagnati destinati a cadere in una trappola di tope piuttosto che in una trappola per topi, poco conta.
Nove autori che hanno fatto di Milano la protagonista dei loro romanzi rivivono la città nei suoi spazi fatti di isolamento affollato, di frastuono inudibile di errori e di orrori e, naturalmente, lo fanno ciascuno a modo proprio: scrivendo racconti che ambientano crimini nelle zone che da anni raccontano.
In realtà gli autori presenti in questa bizzarra antologia sarebbero undici, ma uno dei racconti è scritto a sei mani da Besola, Ferrari e Gallone: il trio di scrittori che, dopo il successo dell’ultimo noir Operazione Madonnina, si è fuso in un unicum noto a lettori e librai come ‘I Madonnini’.
E’ una metropoli nerissima quella che emerge da queste pagine introdotte con alcolica ironia da Andrea G. Pinketts. Una metropoli divisa a spicchi come un’arancia, ciascuno col proprio sapore e il proprio inconfondibile odore in cui si mescolano gli aromi speziati della cucina africana e quello inconfondibile della paura, il profumo penetrante delle ragazze dei night e quello dei troppi cocktail degli happy hour, lo smog onnipresente e la puzza di miseria e violenza delle occupazioni abusive nei quartieri abbandonati al degrado.
Ferdinando Pastori ha scelto come combat zone la Zona 1: centro storico-Duomo. Stefano Di Marino, Jack Narciso e “i Madonnini” bazzicano la zona 2: stazione centrale, Bicocca. Paolo Roversi e Francesco Perizzolo sono in Zona 3: città studi e la stazione di Lambrate. Francesco G. Lugli si muove in zona 5: fra i quartieri Vigentino, Chiaravalle, Gratosoglio. Andrea Carlo Cappi delinque nella storica periferia di malavita: la zona 5: quartieri Barona e Lorenteggio. Infine, Giuseppe Foderaro esplora i luoghi più in bilico fra ricchezza e miseria: la stazione Garibaldi e Niguarda.
Storie di malavita, di vendette consumate, di tradimenti, di morti per sbaglio e d’immigrati: quelli per bene che si sudano la vita dietro il bancone di un bar e quelli per male che fanno di tutto per renderla difficile a chi incrocia i loro passi. Storie di corna vere e fasulle. E di investigatori incaricati di trovarne le prove. Storie di grandeur e di manie. Tutte credibili e godibili. Tutte perfettamente inserite nei quartieri noir che, sostanzialmente, come spiega Andrea G. Pinketts, alla fine «sono solo strade» che gli autori percorrono in una giornata: il 12 dicembre 2013.
Autori vari
UN GIORNO A MILANO
Prefazione di Andrea G. Pinketts
Novecento editore, pagine 287, 8,42 euro anziché 9,90 su internetbookshop
Incipit: Il più misero fra gli uomini è quello che manca di conoscenza. Nei primi diciotto anni della mia vita non ho mai letto un giornale, eppure ne circolavano in casa: li leggevano mio zio, mio fratello, mio padre... Erano cose da maschi. Quando sono arrivata a Milano ho scoperto che cosa significa vivere da persona informata, cosciente di ogni situazione, e che esistono lotte per la dignità e la giustizia, che la politica non e roba da congrega e nemmeno un fatto di opinioni diverse, bensì la chiave fondamentale dell’emancipazione civile.
Ho imparato a confrontare sui giornali articoli diversi sullo stesso tema, a discernere fra la smaccata propaganda e un’onesta dialettica, a intendere i linguaggi e a distinguere il valore delle idee. Credo sia stato un incidente a farmi cambiare registro quasi all’istante.
Allora a Milano mi muovevo preferibilmente in bicicletta, pedalando come un’autentica spericolata: superavo macchine in manovra e perfino qualche motoretta. In uno di quei sorpassi urtai una Topolino, in realtà la sfiorai appena, ma frenando all’improvviso mi trovai a terra. Il portapacchi della piccola auto era colmo di volumi che nella frenata rotolarono tutti sull’asfalto. Il conducente, un venditore ambulante di libri usati che aveva una bancarella proprio li a Brera, mi aggredì sbracciandosi: ≪Ma dove hai la testa? Guidare in quel modo... Siete una manica di incoscienti senza rispetto per chi lavora!≫.
Il Senato, visto con gli occhi di chi ci sta dentro, «è ben più stomachevole» di come appare a chi ne segue le sedute rissose da fuori, attraverso le dirette e i resoconti dei tigì. Talmente stomachevole che Franca Rame, in contro tendenza con i colleghi che al proprio seggio sono sempre stati attaccati, peggio che se fosse cosparso di attak, ne è letteralmente fuggita nel 2008, dopo aver inviato al presidente Franco Marini un’accorata lettera di dimissioni che non poté essere dibattuta in aula perché poco dopo, in seguito al voltafaccia «dello statista di Ceppaloni», il governo Prodi cadde.
Eletta con 500.000 voti nelle file dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, Franca Rame, in questo libro, uscito postumo, offre una testimonianza unica del backstage della vita politica, mescolando sul filo della memoria sprazzi di ricordi personali, episodi dell’antica militanza e resoconti di quello che vide accadere in aula, dalla sua elezione fino alla volgare bagarre con insulti, schiamazzi, spumante e mortadella che seguì al voto di sfiducia al governo.
Un libro unico, che, letto alla luce di quello che sta accadendo anche oggi, fa capire perché questo Paese, con questa politica, con queste leggi, molto difficilmente uscirà a breve dallo stato di conflitto sociale permanente, dal malessere e dalla miseria generati dall’illegalità eletta a sistema, dalla prigione di un conflitto di interessi indegno di una democrazia occidentale, dalla volgarità e dall’ingordigia di chi dovrebbe rappresentare i cittadini e invece rappresenta solo i propri privati interessi e quelli del partito. Per averne la certezza basta leggere queste pagine, diventate loro malgrado più attuali che mai in un momento di crisi economica come questo, dopo che fino a ieri i “non eletti” a dispetto delle mirabolanti promesse elettorali, non hanno fatto altro che scontrarsi quotidianamente non sui problemi di sopravvivenza quotidiana dei cittadini, ma sull’opportunità di consentire o meno a un leader condannato in via definitiva per un reato finanziario gravissimo di mantenere il seggio in senato.
Come si sia potuti cadere così in basso e perché sarà difficilissimo risalire la china lo aveva capito Franca nel 2008, quando, disgustata decise di andarsene, e lo potrebbe intuire chiunque se solo avesse voglia di guardare cosa c’era ieri e cosa c’è oggi dietro le minacce dei capigruppo, pronti a far cadere il governo non appena si avvicina ai fili dell’alta tensione dei provvedimenti sgraditi. Minacce che sono sempre le stesse anche se di volta in volta cambia la posta in gioco. Ieri erano le missioni di pace, il mantenimento delle truppe in Afghanistan, la concessione delle basi agli alleati atlantici, le liberalizzazioni, oggi si sono immiserite nella tutela degli interessi di singoli individui al di là di ogni ragionevole scrupolo (morale), mentre gli effetti sui cittadini sono sempre uguali: totale disinteresse per i problemi reali di chi perde il lavoro e non ce la fa a mangiare tutti i giorni.
In fuga dal Senato è il diario di denuncia della “senatrice pentita” Franca Rame, che annota con infinita amarezza: «Vi dico la verità, pur avendo visto spesso in televisione servizi sui ‘disordini' nelle due aule, trovarcisi in mezzo è di gran lunga più stomachevole. Avevo una mia idea sul Senato, beh, ho dovuto cambiarla: una massa di rozzi pronti a tutto». Aggiungendo, come stupefatta costatazione: «Qui ognuno pensa ai fatti propri. L’importante è votare».
Franca Rame
IN FUGA DAL SENATO
Chiarelettere, Fratelli Frilli editori, pagine 310, 11,82 euro anziché 13,90 su internetbookshop
Incipit: La novità. Saint-Malô, agosto 1914. La guerra? Fino alla fine del mese scorso non era che una parola, enorme, che sbarrava i giornali ancora addormentati dell’estate. La guerra? Forse sì, ma lontanissima, dall’altra parte della Terra, ma non qui … Come immaginare che l’eco stessa di una guerra avrebbe valicato queste rocce, giudicate indomabili unicamente perché ai loro piedi sembrano più docili l’onda del mare, l’Armeria marittima rada, il caprifoglio, la sabbia goffrata dagli artigli degli uccelli …
Questo paradiso non è fatto per la guerra, ma per le nostre brevi vacanze, per la nostra solitudine. Le calette nascoste in fondo al mare non vogliono barche qui e lo sparviero attento scaccia anche gli altri uccelli. Ogni giorno, verso mezzogiorno, spicca il volo e tarda a tornare giù; il suo gemello sul mare ce lo svela molto in alto, con le ali spiegate, adagiato sul vento, e il suo bell’occhio rivolto al sole caldo.
Ogni tanto, fra cataste di libri della maggior parte dei quali non si sentiva la mancanza, spunta un gioiello. E’ il caso di questo reportage letterario della giornalista, scrittrice e drammaturga francese Sidonie-Gabrielle Colette, in arte solo Colette. A regalarcelo è la Del Vecchio, una casa editrice indipendente che dal 1907, anno della sua fondazione, continua a volare alto e, resistendo alle lusinghe di un mercato dai gusti sempre più grossolani, continua con tenacia a inseguire e a pubblicare vera letteratura.
In Le ore lunghe, rimasto fino a oggi inedito in Italia, Colette racconta cosa fu la grande tragedia della prima guerra mondiale così come la osservò e la subì lei, piccola donna inerme, incredula davanti a tanta devastazione e a tanto dolore. Un dolore così grande che non ha bisogno di aggettivi e di troppe parole per essere raccontato. E, infatti, la prosa di Colette è meravigliosamente scarna, pura come il ghiaccio, fredda come gli occhi di un torturatore, addolorata e stupita come lo sguardo di un cucciolo preso a calci.
Colette, alla fine dell’estate del 1914 è giornalista di Le Matin. I tamburi di guerra la sorprendono a Saint-Malô sulla costa bretone. Suo marito, il barone Henry de Jouvenel des Ursins, parte per il fronte. Lei lo segue come ‘inviata di guerra’ .
Comincia così tutto uno spostarsi da una zona calda all’altra: Verdun, Parigi, l’Argonne, l’Italia e, mentre si combatte, si muore, Colette vede, annota, scrive, concentrandosi però non sui massacri che seminano di cadaveri i campi di battaglia, ma sugli effetti collaterali del conflitto: l’ospedale militare, le città che si spopolano, le donne e gli uomini che sferruzzano indumenti caldi per i soldati al fronte.
Il conflitto arriva nel nostro Paese e qui, in un capitolo intitolato Impressioni d’Italia, prendono vita pagine stupende. Genova, Roma, Venezia, Como: parole di assoluta bellezza, da guastare immagine dopo immagine, suggestione dopo suggestione.
Colette
LE ORE LUNGHE 1914-1917
Traduzione di Angelo Molica Franco
Del Vecchio editore pagine 231, 11,90 euro anziché 14,00 su internetbookshop
Incipit: Prima di tutto. Ho pensato a lungo da dove iniziare e la scelta migliore mi e sembrata una data in apparenza irrilevante, che rasenta il «dopo» avendo gran parte del «prima» alle spalle. O forse perché semplicemente questo libro e nato da una notizia in apparenza trascurabile ma che, mentre mi addentravo nel suo percorso, diventava una foresta sempre più intricata.
Questa data è il 26 dicembre 1990.
E’ la sera di Santo Stefano quando il corso principale di Cortina d’Ampezzo, affollato di uomini e donne con colbacchi, pellicce e morbidi giacconi di montone, è improvvisamente trafitto dai lampeggianti di un’autoambulanza che mentre la sirena lancia i suoi urli da sciacallo passa con il semaforo rosso. E una volta svicolata dal lento andare degli stivali di pelliccia, sparisce dal palpitare delle luci natalizie per inoltrarsi nell’aria ovattata di neve. L’uomo steso all’interno ha sessantatre anni, accanto a lui un infermiere cerca di praticargli il massaggio cardiaco: l’uomo e cianotico, la pelle tirata agli zigomi, rantola. L’autoambulanza ha intanto imboccato la strada che sale fino al Codivilla, l’istituto elioterapico inaugurato nel 1923 e diventato in seguito un ospedale specializzato in traumatologia. La luce dei fari scivola adesso spettrale sugli abeti che fiancheggiano la carreggiata mentre l’edificio si disegna in alto, le finestre come tanti quadratini a punteggiare la notte. Davanti all’ingresso sono già pronti un medico e una lettiga, e appena l’autoambulanza si arresta gli infermieri si affrettano a spalancare la portiera.
Rosetta Loy, affascinante, antica signora della letteratura, si confronta con la storia recente. «Alla mia età non sono più capace di inventare. Adesso voglio scrivere la realtà in cui noi tutti viviamo», dice. A spingerla ad affrontare la storia recente è un motivo personalissimo. «Ho tanti nipoti», ha spiegato, affidando le parole e il sorriso a un bellissimo video girato per il suo editore. Stando con loro mi sono accorta che l’ultima generazione non sa niente della storia di questi anni. I giovani non hanno niente di chiaro riguardo al passato, come se il presente fosse sospeso sull’acqua. E’ per loro che ho deciso di raccontare i fatti in modo abbastanza semplice».
Ma i fatti che hanno imposto alla storia il cammino che abbiamo percorso non si possono raccontare senza guardare dietro i puri accadimenti. E allora
Rosetta comincia a mettere in fila personaggi, situazioni, eventi sul filo della memoria e poi a collocarli negli anni a mano a mano si snodano. E’ in questo modo che il quadro d’insieme le appare molto diverso da come credeva di conoscerlo.
«Ero partita da un presupposto ma strada facendo, attraverso le ricerche, mi si è disegnato un quadro profondamente inquietante e profondamente doloroso.»
Il viaggio nel tempo di Rosetta Loy comincia con la bomba di Piazza Fontana, anche se non a caso l’incipit è dedicato alla morte di uno dei boiardi di Stato, il potente Franco Piga, l’ultimo ministro per le Partecipazioni statali, deceduto il 26 novembre 1990. Una strana ‘morte naturale’ causata da un infarto sulla quale sei anni dopo la procura di Belluno ha aperto un’inchiesta.
Il viaggio prosegue fra terrorismo, bombe e mafia per concludersi con l’irruzione sulla scena politica di Berlusconi.
«E’ salito al potere con quella che io credevo fosse una grande vittoria » spiega Rosetta. «Solo dopo ho capito che quella vittoria era in realtà una conseguenza. La vera vittoria era quella della mafia in tutte le sue ramificazioni.»
Il significato delle parole è chiaro. L’ascesa al potere di Berlusconi, avvenuta dopo molti episodi tragici e oscuri e dopo Tangentopoli, era stata preparata da tempo ed è stata la conseguenza dei fatti che l’avevano preceduta.».
Il titolo di questo inconsueto ‘libro di storia d’autore’ entra anch’esso negli eventi in punta di piedi. A spiegarne il significato è la stessa Rosetta.
«L’Idea mi è venuta da un libro di Vittorio Sermonti: Il tempo fra cane e lupo [Bompiani 1980. Un libro di racconti inseriti dentro una cornice. Parla della notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, quando i carri armati del Patto di Varsavia entrarono in Praga per occuparla, stravolgendo l’esistenza di molti cittadini che, nelle pagine, rivivono, ciascuno a modo proprio, quei terribili minuti di spavento nell’ora che non è più notte mentre il giorno non è ancora iniziato. L’ora fra ilo cane e il lupo, appunto.]
Dilatando il concetto, Rosetta ripercorre il periodo fra il ‘69 e il ‘92, quando finisce un tempo terribile e ne sta per cominciare uno, se possibile, ancora peggiore ma che nessuno capisce cosa realmente porti con sé. Finché l’avvento di Berlusconi rende tutto più chiaro.
Il racconto di Rosetta si snoda fra accadimenti terribili e ricordi personali che a quegli accadimenti si sono indissolubilmente legati. Nel radunare i fatti e farli combaciare come le tessere di un mosaico, molti ricordi personali si sono saldati ai grandi eventi che hanno cambiato il corso della storia stravolgendo, come in quella notte a Varsavia, innumerevoli vite di cittadini ignari, diventati strumenti inconsapevoli del potere.
Rosetta Loy
GLI ANNI FRA CANE E LUPO. 1969-1994. Il racconto dell’Italia ferita a morte
Chiarelettere, pagine 292, 11,82 euro anziché 13,90 (eBook a 9,99) su internetbookshop
Incipit: Prologo. A Borgo Panigale, sui gradini di un negozio di giocattoli, di fronte al centro commerciale, fu rinvenuto il primo piede.
Era stato gettato contro la vetrina durante la notte, attraverso le maglie
della saracinesca abbassata.
La negoziante cadde a terra priva di sensi, appena lo vide.
La soccorse un giovane che passava da lì per andare al lavoro; il ragazzo notò l’arto tranciato e per poco non svenne pure lui.
Gridò. Accorsero altre persone. Qualcuno chiamò il 113. Presto si radunò una folla di passanti e negozianti della zona. Un vigile urbano che abitava nello stesso palazzo, dopo un iniziale sbigottimento tentò di mettere ordine, ma il caos era oramai ingestibile per un uomo solo, e la folla continuava a crescere.
La sirena di una volante lacerò l’aria coprendo mormorii ed esclamazioni.
Calò il silenzio. Occhi sgranati e teste che si sporgevano tra la calca.
Giunsero altre due auto della polizia, cinque agenti e un ispettore della mobile già al telefono col magistrato di turno.
La gente fu spinta a debita distanza o, meglio, indietreggiò spontaneamente a contatto con l’autorità. La zona fu transennata, il traffico deviato. Nonostante il freddo, nei palazzi attigui erano tutti alle finestre.
Busti immobili che sarebbero sembrati pupazzi colorati, se i loro respiri non si fossero condensati in nuvolette.
Pochi minuti e arrivarono i primi giornalisti, quelli più solerti o che per loro fortuna si trovavano vicini, con il loro seguito di fotografi e furgoni attrezzati per la diretta.
Un quarto d’ora più tardi, il caso era già esploso su tutti i principali canali televisivi: l’orrore aveva assunto proporzioni nazionali.
Bologna così piena di vita, così tranquilla, operosa e gaudente di giorno, di notte fa paura. Soprattutto in centro, dove si allungano le infinite prospettive dei portici con troppi anfratti, troppi androni scuri e pericolosi. Soprattutto se in strada c’è un assassino seriale che cattura e tortura le sue vittime e poi le semina a pezzi dove gli capita o, meglio, dove immagina che i ritrovamenti suscitino più orrore.
Ad aprire il macabro elenco è uno studente di buona famiglia che sta per laurearsi al Dams, Gabriele Rivetti, scomparso alcuni giorni prima. Il suo piede, segato con un attrezzo da falegname mentre era ancora in vita viene rinvenuto davanti alla saracinesca di un negozio a Borgo Panigale. Pezzi di gamba sono poco lontano e il resto del cadavere giace, sepolto malamente, in un boschetto a Dugnano, sulla collina.
Questa storia piena di orrore e spavento che però non scivola mai nel pulp delle descrizioni orripilanti ha come primo protagonista la città notturna vista attraverso gli occhi del tassista Annibale Dori, uno strano personaggio con una insana passione per il jazz e una venerazione per il ‘santone pazzo’ Thelonius Sphere Monk, il grande jazzista passato alla storia per le sue improvvisazioni geniali, per le jam session interminabili, ma poco apprezzato dai critici contemporanei a causa delle sue stranezze.
Amando alla follia il jazz, Il tassista Dori non può non frequentare assiduamente le cave umide in cui si suona dal vivo, che sono la seconda casa di tanti personaggi notturni. Creature che di giorno non si incontrerebbe mai perché vivono vite da pipistrelli, a cominciare da Al, lo sfortunato pianista amico di Annibale finito in rianimazione.
Non si può dire di più riguardo alla trama di questo romanzo se non che la caccia al killer, vista attraverso gli occhi di Dori, diventa a un certo punto la coscienza di una città. La vicenda è aggrovigliata e semplice insieme. Godibile dalla prima all’ultima riga.
Se la trama non può essere svelata, non si può non fare un breve accenno allo stile dell’autore. Molto secco, essenziale fin quasi al minimalista, capace di suscitare emozioni con le immagini senza suggerirle. Una vera e propria opera di chirurgia letteraria che finalmente regala una prosa pulita ed efficace, libera dalle troppe metafore, dalle troppe iperboli, dagli stravaganti anacoluti,dalle endiadi (e via con ogni figura retorica possibile), di cui abusano troppi narratori italiani.
Roberto Carboni
BOLOGNA DESTINAZIONE NOTTE. La fase Monk
Fratelli Frilli editori, pagine 213, 8,42 euro anziché 9,90 su internetbookshop
Incipit: Burgos 1481. Il rintocco delle campane accompagnò i prigionieri lungo le vie della città. Formavano una macabra processione preceduta da un enorme crocifisso di legno e oro. Alla testa del gruppo i soldati picchiavano chi perdeva il passo o rallentava gli altri, mentre dalle finestre e dai balconi la gente li insultava e lanciava oggetti contro di loro. Tra i condannati, un vecchio dal volto scavato stramazzò a terra. Era sfinito e venne giustiziato sul posto con un colpo di spada.
«Non abbiamo tempo da perdere», sbraitò una delle guardie, incitando gli altri a riprendere la marcia.
La sua divisa bianca risplendeva sotto il sole, mettendo in risalto i folti baffi neri sul viso crudele.
Il cadavere del vecchio rimase abbandonato sulla strada e, senza neppure aspettare che il corteo si allontanasse, alcuni bambini cominciarono a prenderlo a sassate. Una donna gli portò via i calzari e la veste lurida prima di dileguarsi rintanandosi in casa. Poco dopo due soldati caricarono svogliatamente quel povero corpo nudo in cima a un cumulo di altri morti, sul carro che chiudeva la processione.
Non è facile passare dal noir contemporaneo al thriller storico ma Matteo Di Giulio, giovane e promettente autore ci riesce a meraviglia scegliendo la via non facile della documentazione approfondita. Il periodo scelto è quello intrigante del Rinascimento fiorentino. Un’epoca intricata, politicamente complessa, movimentata da intrighi e lotte fratricide, ammorbata dal puzzo degli auto-da-fè: i roghi della Santa Inquisizione che divampano in tutta Europa.
Proprio da uno di questi roghi, acceso nella Spagna della cattolicissima Isabella di Castiglia, prende il via l’azione. Da un anno è stato introdotto nel regno il tribunale della Santa Inquisizione. Nonostante le promesse della regina dopo la capitolazione di Granada, vengono perseguitati condannati a morte anche i moriscos e i marrani: arabi ed ebrei convertiti. Su uno di questi roghi muoiono la madre e il padre di Rafael che a sei anni assiste al supplizio dei genitori e, cresciuto, giura di vendicarli. Il ragazzo sa bene chi li ha traditi perché negli anni ne ha seguito le tracce. Sa che l’unica possibilità di trovarlo è a Firenze e, attraversando a piedi mezza Europa, arriva nella città dei Medici, la più aperta, la più liberale, la più sontuosa dopo Roma. Ma anche la pericolosa. Vi arriva nel 1494, quando la magnificenza della corte medicea comincia a rattrappirsi sotto gli attacchi di un frate francescano che sembra sbucato dal nulla ma con le sue predicazioni infiamma le folle incitando nobili e popolino a ribellarsi contro le mode e le stravaganze del tempo. Soprattutto contro il lusso esagerato delle corti e contro le opere d’arte che arricchiscono i palazzi.
E’ un momento molto pericoloso. Rafael non fa a tempo a mettere piede in città che sventa un’aggressione mortale a un ricco costruttore, tale Jacopo Zaccari noto come Jacopo da Forlì. Sembrerebbe un tentativo di rapina casuale ma non è così. Il giovane Rafael si trova sul posto proprio mentre l’aggressore sfodera il pugnale e lo costringe alla fuga ottenendo in cambio la riconoscenza della vittima.
Ospitato e nutrito, il giovane vendicatore avrebbe tutto il tempo per cercare con comodo il suo uomo, ma proprio in quel periodo in città si aggira un pazzo assassino. Un invasato che commette una serie di omicidi firmandoli con pergamene su cui ha riportato versetti delle sacre e testi dei padri della Chiesa. Sono omicidi rituali e seguono uno schema preciso, ma Pierantonio di Francesco Carnesecchi uno “degli otto di guardia e di balìa” cioè un magistrato, davanti all’omicidio di un commerciante di pietre da costruzione non va troppo per il sottile con le indagini e, apprendendo che la vittima è un fornitore di Jacopo da Forlì, lo fa arrestare e trascinare al Bargello.
Rafael deve interrompere la caccia per correre in soccorso al suo benefattore ma è uno straniero, ha la pelle olivastra, conosce fin troppo bene la matematica e la geometria e soprattutto va facendo troppe domande nella città che Girolamo Savonarola sta inondando di odio.
Bel romanzo storico, magnificamente ambientato in un’epoca conosciuta dai più solo superficialmente. Firenze,i personaggi, gli usi e la quotidianità nella Firenze dei Medici sono il frutto di ricerche minuziose mentre lo stile è fluido e godibile nonostante l’uso di termini tratti dai tomi consultati. Unico neo perdonabile: una certa disinvoltura anacronistica che spunta qua e là nei dialoghi, che tuttavia non disturba ma semmai rende più rapida e agevole la lettura.
Matteo Di Giulio
I DELITTI DELLE SETTE VIRTU’
Sperling & Kupfer, pagine 377, 10,96 euro anziché 12,90 su internetbookshop
Incipit: Prefazione. Con rabbia e con orgoglio. Così nacque, qualche anno fa, il libro La città che brucia - un titolo quanto mai tristemente profetico pubblicato per la prima volta nel 2011.
La genesi del racconto, tuttavia, è di gran lunga anteriore. Risale agli anni tristemente famosi dell'emergenza rifiuti, quando il mondo scoprì attonito che Napoli moriva sotto i colpi d'incapacità e malaffare, mentre i media internazionali documentavano lo stupro di una delle aree più' belle e fertili del mondo.
La città che brucia è un libro nato così, dalla pancia più che dalla mente, come gesto di rabbia estremo, come vomito sulla carta, come un cazzotto nello stomaco.
Il nome di Napoli, tuttavia, non viene mai citato in alcun passaggio, sia per un senso estremo d'amore e di rispetto, sia perché' non volevamo ridurre a mera problematica locale una lotta di giustizia universale.
Questo romanzo, che evoca una visione terrificante del nostro futuro prossimo, appartiene al genere ‘catastrofismo ambientale’ ma merita un po’ di attenzione anche da parte di quei lettori che non amano la fantascienza. E questo per due ragioni: perché al netto delle tante esagerazioni, nell’insieme la storia narrata non è così irrealistica come appare a una prima lettura. E poi perché si propone di dare risposte a domande niente affatto fuori dalla realtà tipo: cosa succederebbe se a vincere, nel nostro Paese, fossero le mafie che da decenni stanno arricchendosi a spese dell’ambiente? Se i padrini riuscissero a imporre le loro leggi? Se la ‘Terra dei fuochi’, dove è già stato prospettato un futuro prossimo di desolazione e morte, diventasse del tutto inabitabile a causa delle contaminazioni dovute a decenni di scarichi abusivi di rifiuti tossici e scorie radioattive che la criminalità importa da altri paesi e smaltisce arricchendosi spropositatamente? Se in un pianeta ormai malato per le emissioni di anidride carbonica e veleni, il clima fosse cambiato al punto da arrostire la terra con temperature vicine ai cinquanta gradi centigradi? Se sotto quel sole il suolo fosse una discarica? Se per sfuggire in qualche modo a quelle condizioni avverse, gli uomini fossero costretti a scavare gallerie nel sotto suolo e a vivere lì senza leggi e senza morale, uccidendo per poche gocce d’acqua e un pugno di riso? Se i capimafia, comodamente installati in cittadelle fortificate, al riparo dalle contaminazioni, riuscissero a instaurare una dittatura feroce, tesa a schiacciare gli sventurati che escono all’aperto in cerca di cibo e di materiali per sopravvivere?
E’ per sfuggire a questo ambiente che Gennaro detto Genny e Mario, due sedicenni nati e cresciuti nel sottosuolo, decidono di avventurarsi in superficie per trovare qualche traccia delle meraviglie dei tempi passati che ancora sopravvivono nei ricordi degli anziani. Una volta fuori, e senza più la possibilità di tornare indietro, i due ragazzi si imbatteranno negli squadroni della morte ingaggiati da “Loro”, i nuovi padroni. Nel corso del viaggio incontreranno anche le tribù-famiglia, ciascuna con le proprie regole e le proprie leggi, e i bambini-scimmia nati e cresciuti nell’immondizia da cui traggono tutto. Ma scopriranno anche una rete di resistenza perché la voglia di libertà sopravvive anche alle condizioni più estreme.
Bel romanzo per tutti con un unico neo: alcune sbavature stilistiche che forse avrebbero meritato un editing più drastico e accurato.
Marcello Peluso
LA CITTA’ CHE BRUCIA
Zeroundici edizioni, pagine 146, 12,82 euro anziché 13,50 (eBook a 8,99) su internetbookshop.
Incipit: Dalla prefazione di Edoardo Montolli. Qualche tempo dopo la strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, fu arrestato uno spacciatore della Guadagna, a Palermo. Certo Vincenzo Scarantino. Un tizio strano, esonerato dal servizio di leva come neurolabile. Faceva parte di una confraternita religiosa. Ma finì dentro per una vicenda pesantissima, perché c’erano due persone condannate per stupro, Luciano Valenti e Salvatore Candura, che lo incastravano. Una vicenda dannatamente surreale.
1. Salvatore Giuseppe Riina. L’appuntamento è a Prato della Valle. Quando il cellulare comincia a vibrare sul comodino sono già sveglia. Ormai ce l’ho dentro come un impulso automatico, alle cinque apro gli occhi. Mi è rimasto da quando lavoravo ad Agr, l’agenzia del Corriere della Sera, con quei turni che per nove anni mi hanno trascinata in redazione alle sei del mattino.
L’incipit soft, delicato come in un romanzo d’amore, non prepara alle pagine che seguono, che possono essere definite con un solo aggettivo: agghiaccianti.
Dopo vent’anni si sta dibattendo a Palermo il processo della trattativa Stato-Mafia e i ‘pentiti’ si alternano al microfono per aggiungere il loro pezzo di verità a quello che si era sempre negato o, almeno, tentato di non prendere in considerazione nei processi precedenti per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Sono passati ventun’anni da quella maledetta estate del ’92. Quando il tritolo si prese ‘col botto’ le vite di due magistrati coraggiosi e quelle degli uomini della scorta. Un tributo di sangue che fece imboccare al paese una nuova strada. Con gente nuova al potere. Ma chi ha voluto tutto questo? Chi ha pilotato questo sanguinoso cambiamento?
A cercare le risposte attraverso interviste difficili come quella al figlio di Totò Riina, Salvatore Giuseppe, è Raffaella Fanelli, una giornalista coraggiosa anche se forse non abbastanza da fare i nomi (almeno quelli consegnati da tempo alle cronache) dei politici coinvolti nella trattativa, che pentiti del calibro di Salvatore Cancemi chiamano in realtà ‘patto’: un patto permanente fra Stato e mafia, non un accordo momentaneo per far cessare le stragi.
Il figlio di Riina, Salvatore detto Salvo, Gaspare Mutolo, il ‘pentito’ che Borsellino non fece in tempo a sentire, Angelo Provenzano, massimo Ciancimino, Licio Gelli … ciascuno dice la sua. Parole sincere, menzogne, parole reticenti … Parole che comunque aggiungono tasselli su tasselli al grande arazzo della vergogna cominciato con la strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947) proseguita con gli omicidi di magistrati e di uomini dello Stato, culminata nelle stragi del 1982 in cui persero la vita Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa, del 1992 (Falcone e Borsellino), a cui seguirono le bombe di Milano, Firenze e Roma del 1993, e che forse non è mai finito.
Ora, dopo le rivelazioni di Gaspare Spatuzza, per fare luce sulla trattativa, è stato istruito un nuovo processo che sta gettando una luce diversa su quello che accadde nei decenni scorsi. Molte cose non si sapranno mai. Altre si potranno intuire ma non portare in tribunale. Quello che conta però è che non si smetta di scrivere libri come questo, che non solo aggiungono frammenti in più alla conoscenza dei fatti, ma tengono viva la memoria e soprattutto la vigilanza, affinché quello che è accaduto in passato per colpa dell’indifferenza, dell’ignoranza e della distrazione dei tanti che continuavano a credere che la mafia fosse solo folclore e leggenda, non debba ripetersi mai più.
Raffaella Fanelli
INTERVISTA A COSA NOSTRA
Prefazione di Edoardo Montolli
Edizioni Anordest, pagine 271, 10,96 euro anziché 12,90 su internetbookshop