La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.
Incipit: “Sono cresciuto nell’odio. Nell’odio per l’Occidente, i cristiani, gli ebrei, gli Stati Uniti d’America. Sono cresciuto credendo che contasse soltanto imporsi, affermarsi, se necessario annientando i propri nemici. Nessuno i ha mai detto che esisteva un’altra possibilità: porgere l’altra guancia, rispondere alla sete di potere e affermazione, di distruzione e odio, con la oro antitesi, l’amore”.
Della sua vita, del suo gesto terroristico e soprattutto delle motivazioni che avevano portato un giovanissimo turco estremista di destra a giungere a Roma per sparare il 13 ottobre 1981 in piazza San Pietro al papa, Ali Agca aveva già scritto nel 1996 per la Newton. Titolo: “La mia verità”, un libro inverosimile pieno di allucinazioni religiose, scritto in attesa di quella tanto agognata grazia presidenziale che sarebbe arrivata, con Ciampi al Quirinale, appena quattro anni dopo.
Completamente in libertà da ormai tre anni (dopo altri dieci di carcere scontati in Turchia per un precedente omicidio), Ali Agca torna a scrivere di se stesso con quella “mia verità” che riecheggia nel titolo e che già inquieta prima ancora di aprire il libro. Lo apriamo speranzosi che adesso, finalmente, a 32 anni dall’attentato a Giovanni Paolo II, con il mondo non più diviso in due blocchi, scevro da ogni pendenza giudiziaria, Ali Agca la “sua” verità la racconti per intero, senza omissioni.
Ma ogni speranza resta delusa fin dalle prime pagine di questo “Mi avevano promesso il paradiso. La mia vita e la mia verità sull’attentato al papa”, un libro scritto in prima persona, all’apparenza senza l’aiuto di nessuno.
Duro, molto duro doversi subire la ricostruzione completa della sua povera vita, peraltro già ampiamente conosciuta, prima di arrivare, stremati dalla noia, a pag. 97 dove Ali, mostrando di prendersi molto sul serio, narra, dopo un addestramento estremo, l’origine dell’attentato al papa: l’incontro con un personaggio inatteso. Addirittura l’ayatollah Khomeini in persona. Siamo arrivati ad una data fatidica: il 13 maggio 1980, un anno esatto prima degli spari in piazza San Pietro. Khomeini, dopo una rivoluzione quanto mai cruenta, è al potere da 15 mesi. E’ alle prese con la crisi degli ostaggi americani rinchiusi nell’ambasciata di Teheran, ha appena subito il tentativo del presidente americano Carter di liberare i prigionieri, sta eliminando uno ad uno i suoi alleati, a cominciare dai comunisti, ma trova il tempo per un incontro vis à vis con un condannato a morte (assassinio del giornalista turco Abdi Ypekci), con la fama di fanatico omicida, ricercato da tutte le polizie del mondo.
L’incontro tra Agca e Khomeini ve lo risparmiamo per la sua comicità. Il risultato è che Agca, un anno dopo, sarà a Roma per uccidere il papa proprio su preciso ordine dell’ayatollah iraniano. Subito dopo avrebbe dovuto uccidersi sempre sulla piazza. Il “guerriero Ali” (questo il titolo del settimo capitolo) però deve arrendersi alle esili braccia di una piccola suora, suor Lucia, che lo strattona e gli impedisce la fuga. Agca scrive che cerca di fuggire perché la pistola gli si è inceppata e quindi non può uccidersi. Ma nessuna perizia ha mai parlato dell’inceppo della pistola.
Facile, troppo facile oggi, 32 anni dopo, puntare l’indice sull’Iran allo scopo di mettere in una luce ancora peggiore un Paese che di luce chiara ne ha ben poca. Troppo facile, proprio ora, attribuire all’Iran un attentato odioso che turbò il mondo Occidentale così come l’orribile infamità del rapimento di una giovane donna, Emanuela Orlandi, solo perché figlia di un dipendente del Vaticano. Secondo Agca furono sempre gli iraniani a rapirla e a chiedere lo scambio con lui perché le autorità di Teheran temevano che alla fine il turco parlasse.
Se non credessimo personalmente nella serietà di una casa editrice come Chiarelettere ci verrebbe da pensare ad un’operazione di disinformazione e di intelligence di una qualche lobby israeliana, immediatamente dopo la rielezione del governo di Gerusalemme, pronto ad un attacco mirato al Paese degli ayatollah, anzi per questo scalpitante.
Il libro di Agca però non ci spiega come mai, quando nel 1983 decise di collaborare con la magistratura italiana, accusando i bulgari di essere i mandanti dell’attentato, arrivò a descrivere con dovizia di particolari l’appartamento dove viveva il diplomatico Sergej Antonov. E come faceva Ali a sapere che un Tir diplomatico dell’ambasciata bulgara doveva partire alle 17 in punto del giorno dell’attentato per Sofia con il compito di metterlo in salvo? Tutti particolari che Ali non poteva aver inventato e da lui stesso raccontati al giudice Martella e ampiamente riscontrati.
Fanno da corollario al libro l’incontro tra lo stesso Ali e Giovanni Paolo II e la “rivelazione” di quello che si dissero. Tutto qua. (sp)
Ali Agca
MI AVEVANO PROMESSO IL PARADISO. La mia vita e la verità sull’attento al papa
Chiarelettere, 191 pagine, 12,90 €
Incipit: (dalla prefazione di Alex Zanotelli): “È importante questo libro di Valentina Furlanetto su un tema di cui in Italia si è sempre parlato poco, come si è riflettuto poco sulla nostra «mala cooperazione». È un argomento che mi ha sempre appassionato, soprattutto nel periodo in cui sono stato direttore della rivista “Nigrizia”. Purtroppo devo ammettere che dal 1985, quando su “Nigrizia” pubblicai l’editoriale “Il volto italiano della fame africana”, una denuncia del sistema di aiuti ai paesi del Sud del mondo, le cose non sono cambiate. Casomai sono peggiorate”.
“Indiani e cowboy. Ci sono persone convinte che la linea di confine fra buoni e cattivi sia netta. Io ero una di queste. Fra indiani e cowboy, per dire, non ho mai avuto dubbi. D’accordo, non ho mai donato il sangue (ma solo per una non risolta avversione nei confronti degli aghi) e non sono mai saltata a bordo di una di quelle imbarcazioni che solcano gli oceani per salvare balene e foche (ma solo perché non ne avrei il coraggio), nonostante per balene e foche nutra molta simpatia. Se qualcuno suona all’angolo di una strada mi fermo, se c’è da partecipare a una colletta lo faccio e se bisogna lottare per una causa non mi tiro indietro. Cosi, quando ormai molto tempo fa ho iniziato a occuparmi di beneficenza, non profit, onlus e organizzazioni non governative (ong), nutrivo per queste realtà un sotterraneo pregiudizio positivo”.
Si avvicina il periodo delle dichiarazioni dei redditi. Fra poco ai contribuenti toccherà decidere a chi donare il cinque per mille. Aspettiamoci dunque una valanga di spot lanciati dalle organizzazioni benefiche riconosciute “non profit”. Nel frattempo continuano su tutti i media, sempre più martellanti, i messaggi che invitano a donare via telefono. Due euro per salvare la vita a un bambino. Due euro per costruire un ospedale. Due euro per inviare farmaci. Due euro per vaccinare. Due euro per salvare la vita… C‘è di tutto e i cittadini, perennemente in preda a sensi di colpa, aderiscono in massa senza porsi troppe domande. In fondo, per chi non ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese, due euro sono poco più del prezzo di una tazzina di caffè. Donarli aiuta a dormire meglio la notte.
E’ vero, un pregiudizio positivo ci fa credere che sia bello, buono, giusto e soprattutto efficace tutto ciò che è no profit, equo e solidale: dalle adozioni a distanza alle ricostruzioni post calamità naturali. Dall’invio di farmaci, allo scavo di pozzi per dare l’acqua a popolazioni afflitte dalla siccità (come se si potesse trovare l’acqua dove non c’è!). I cittadini, anche i meno abbienti, sono sempre ben disposti verso le campagne benefiche e anche se talvolta hanno il dubbio che buona parte dei fondi raccolti venga avviata verso altre destinazioni, continuiamo ad aderire. Ma continuerebbero a farlo se sapessero che molte delle Organizzazioni non governative (ong) con i fondi raccolti fanno business? Che i loro manager hanno stipendi d'oro?
Quella della solidarietà è una galassia della quale si sa poco. Si invia il messaggio per donare gli euro e ci si sente in pace. Si comprano azalee e arance benefiche e si torna a casa contenti. Ma quanto arriva, dei milioni di euro raccolti, a chi muore di fame, alla ricerca, ai cooperanti che rischiano la vita in posti impossibili?
Va detto che in Italia, dove fra l’altro non c’è l’obbligo per le Onlus di pubblicare i bilanci, ogni giorno la Guardia di Finanza smaschera qualche furbo. Ma anche per chi la beneficenza la fa davvero il confine fra profit e non profit è molto sottile e milioni di associazioni si scannano a colpi di slogan strappalacrime e foto di bimbi in agonia. E non è un caso se il numero delle Ong in Italia negli ultimi anni si è moltiplicato in modo spropositato. Negli anni Sessanta non arrivavano a una ventina. Oggi, come scrive l’autrice, “quelle riconosciute ufficialmente sono 248, si interessano di 3000 progetti in 84 paesi del mondo, occupano 5500 persone e gestiscono 350 milioni di euro l’anno”. E le Ong sono solo una piccola parte del terzo settore, quello della solidarietà e, tutto sommato, fanno bene il loro dovere. Chi fa la parte del leone sono infatti le Onlus, cioè le organizzazioni senza scopo di lucro nelle quali entrano cooperative sociali, fondazioni per la cultura e la ricerca, volontariato… Di tutto.
Per avere un’idea di quanto sia vasto il mercato della carità bisogna sapere che: “nel 2012 l’Istat ha avviato il questionario per il censimento del settore non profit spedendo i moduli a 457.000 organizzazioni, più del doppio rispetto alla rilevazione del 2001, quando ne erano state censite 235.000, con 500.000 dipendenti e 3 milioni 335.000 volontari. (…) Anche considerando che di quel mezzo milione di realtà non profit a cui si rivolge l’Istat alcune siano fantasma o scomparse di recente, è lampante che dal 2001 a oggi la crescita nel numero sia stata esponenziale”.
Valentina Furlanetto
L’INDUSTRIA DELLA CARITA’. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza
Prefazione di Alex Zanotelli
Chiarelettere, pagine 272, 11,82 € anziché 13,90 su Internetbookshop
Incipit: “A vent’anni dalle stragi, si avverte l’esigenza di un approfondimento su quanto è accaduto in Italia dal 1992 a oggi. E’ necessario un ripensamento critico che non debba esclusivamente tener conto delle risultanze processuali. L’azione della giustizia, infatti, in questo ventennio ha manifestato tutti i suoi limiti, che consistono nell’esigenza prevista dal codice di trovare delle prove concrete, in ordine a reati specifici e a responsabili individuati con certezza”.
Al di là del titolo, esageratamente ambizioso perché riprende il “j’accuse” scagliato da Pier Paolo Pasolini nel lungo articolo pubblicato sul Corriere della sera il 14 novembre 1974, intitolato “Io so i nomi dei responsabili delle stragi italiane.”, questo libro, che altro non è se non una lunga intervista fatta al giudice Antonio Ingroia dagli autori LoBianco-Rizza, contiene uno sconvolgente groviglio di rivelazioni che supera di molto le verità giornalistiche degli ultimi decenni. Ci fu la trattativa Stato-Mafia? Altroché se ci fu! E i fatti che ruotano attorno a questo patto scellerato anche oggi, a distanza di tanti anni, fanno paura.
Antonio Ingroia, magistrato antimafia che fu nel pool con Falcone e Borsellino, tornato dal Guatemala dove dirigeva un’unità di investigazione per la lotta al narcotraffico, oggi in aspettativa per candidarsi alle prossime elezioni politiche, sceglie di raccontarla, questa storia, partendo dalla sentenza del maxiprocesso di Palermo del 1987, quella che inflisse durissime condanne ai boss, applicando il regime carcerario stabilito dal 416-bis. Quell’evento, a suo giudizio, fu lo spartiacque destinato a cambiare la natura di Cosa nostra, traghettandola dallo status di puro e semplice fenomeno criminale a quello di interlocutore delle rappresentanze istituzionali.
La verità sugli ultimi venticinque anni di vita politica nel nostro paese che emerge da questo libro è un intreccio di compromessi, di abusi del potere, di favori dati e ricevuti, di ricatti e arricchimenti personali. Di carriere politiche istantanee e altrettanto veloci cadute. Di pressioni sui politici, sui cittadini, sugli imprenditori esercitate a colpi di dossier, di tritolo e di kalashnicov. Un magma mostruoso che ha pesantemente condizionato la vita civile della nazione e tutte le istituzioni, minando alla base i precetti democratici.
Antonio Ingroia, dal 1999 procuratore aggiunto della Procura di Palermo, era un “giudice ragazzino” all’epoca del pool. Borsellino lo volle con sé alla procura di Marsala e poi a Palermo. Dopo le stragi del ‘92-‘93 fu dapprima sostituto a Palermo, al fianco di Giancarlo Caselli, poi pm della procura antimafia. Nel corso della carriera si è occupato dei casi più eclatanti legati alla criminalità mafiosa fra cui quello del supepoliziotto Bruno Contrada, indagando anche sui rapporti mafia-politica-economia. Fra le sue indagini più importanti c’è quella sul senatore Pdl Marcello dell’Utri e sui suoi rapporti con Silvio Berlusconi. Dunque, non c’è da stupirsi se, dopo tanti anni in trincea, oggi afferma “Io so”, facendo una netta distinzione fra le tre verità: quella giornalistica, quella processuale e quella pasoliniana: probabilmente l’unica vera, ma non suffragata da prove.
Naturalmente viene affrontato anche il nodo della pax mafiosa-nascita di Forza Italia, cosa che ha scatenato veementi polemiche e levate di scudi. Ingroia è stato accusato di diffamazione ai danni dei milioni di cittadini che hanno votato Pdl e benché nel libro non si trovi nulla che non salvi la buona fede dei molti che hanno creduto (e continuano a credere) nel partito di Berlusconi, il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, oggi condannato ai domiciliari per un articolo pubblicato sul suo giornale, ha immediatamente dato il via a una raccolta di firme per promuovere un’azione legale contro il magistrato. Al di là dell’approvazione o meno dell’operato di Antonio Ingroia come magistrato e della sua candidatura politica, questo libro rappresenta un tassello importante nel grande mosaico incompiuto della verità.
Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
ANTONIO INGROIA: IO SO
Chiarelettere, pagine 156, € 10,96 anziché 12,90 su internetbookshop
Incipit: “Il periodo del terrorismo indiscriminato è stato per molti un insieme di frammenti di cronaca concentrati in un arco di tempo determinato. Tra il 1969 e il 1993 tutto è avvenuto sotto gli occhi di tutti, e ciò nonostante non siamo stati in grado di comprendere appieno il senso di quegli avvenimenti. Siamo stati educati a tenere distinti i singoli fatti, pur allarmanti, che scuotevano la comunità. E siamo stati educati a non pensar male.
Alcuni fattori hanno impedito a tante Corti d'Assise di decodificare del tutto le responsabilità: la precostituzione di prove false a carico di gruppi estranei o comunque di capri espiatori, il depistaggio sistematico, l'analisi separata dei singoli eventi, l'assenza di valutazione delle tecniche della guerra non ortodossa, il mancato approfondimento del contesto storico e del progetto politico a esse sotteso. E il mancato approfondimento delle motivazioni delle stragi politiche commesse in Italia dal 1969 al 1980 ha impedito di comprendere anche il prosieguo del progetto stragista che si è sviluppato sino al 1993”.
Chiunque si trovi alla stazione di Bologna e debba trascorrere un po’ di tempo in attesa di un treno dovrebbe entrare nella sala d’aspetto e sostare qualche minuto davanti alla grande lapide che porta i nomi delle vittime della strage. Sarebbe un gesto di partecipazione umana verso i parenti che – ne siamo convinti - non hanno mai avuto giustizia pur in presenza di una molto discussa sentenza definitiva che non individua i veri autori della strage. Un piccolissimo sforzo, ma pieno di significato, che non mancherebbe di suscitare curiosità nei distratti presenti e magari di accendere una scintilla di interesse negli immemori.
La verità sulle stragi non è più qualcosa di impossibile da raggiungere. I troppi misteri che gravano sul passato recente dell’Italia potrebbero benissimo essere sciolti grazie anche alla desecretazione degli archivi negli altri Paesi Nato. E gli sforzi dei magistrati che per decenni si sono affannati a raccogliere prove, a sciogliere lingue reticenti, a districarsi fra perizie e controperizie, troverebbero finalmente un significato, specie a Bologna dove la procura ha sempre battuto una pista e una sola, ignorando altre che ora stano emergendo con forza.
Anche se il segreto di Stato in Italia è stato definitivamente abolito per legge fin da due legislature fa, si tratta di un’abolizione solo formale perché quasi tutti i documenti accumulati in quei terribili anni sono ancora coperti da un altro segreto che ora si chiama funzionale (tutela dei nomi degli agenti dei servizi segreti in attività). Risultato: documenti caldi non sono ancora consultabili e forse non lo saranno mai.
In questo libro-dossier scritto a quattro mani da Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna, e dal giornalista Roberto Scardova, uno dei primi ad arrivare alla stazione dopo il botto del 2 agosto 1980, sono sintetizzati molti documenti acquisiti di recente e riguardanti le stragi sulle quali sono state poste le pietre tombali di molte assoluzioni.
Da questa lettura appare evidente come molte delle “nuove” carte sarebbero state disponibili in tempo per imprimere un nuovo corso ai processi se non ci fossero stati i depistaggi. Purtroppo, mentre i magistrati e le forze dell’ordine inseguivano gli esecutori materiali, superprotetti, al di là dell’Atlantico era stato deciso di combattere nel nostro sventurato pese una “guerra non ortodossa” per impedire alle sinistre che legittimamente stavano prendendo il sopravvento sulla Dc di Andreotti, di avvicinarsi all’area di governo.
In queste 329 pagine è offerta una visione a 360 gradi di quella guerra e ogni affermazione è suffragata dalle carte e dai documenti pazientemente raccolti dall’Associazioni tra i familiari delle vittime della strage di Bologna e dall’Unione tra i familiari delle vittime di tutte le stragi, le due entità di cui Bolognesi è presidente. Si parla quindi della strage di Piazza Fontana, di quella di Brescia del 28 maggio 1974 seguendone via via l’iter processuale. E ci sono i documenti, illuminanti, dell’archivio Gladio conservati presso la settima divisione del Sismi e quelli contenuti nel fascicolo Italicus-bis (la strage dell’agosto ’74) aperto dal giudice bolognese Leonardo Grassi. E non poteva mancare la madre di tutti gli intrighi, quella che vede impegnata la criminalità organizzata: l’inchiesta “Sistemi criminali” avviata da Antonio Ingroia nella quale si è scoperta l’alleanza di mafiosi con pezzi deviati dello Stato e militanti di Ordine Nuovo nel compimento delle stragi del ’92-93 a Milano, Firenze e Roma.
Le stragi ci sono state ma perlopiù sono state trattate dagli inquirenti e dalle forze dell’ordine come episodi criminosi a sé stanti, battendo piste che erano anch’esse frutto di depistaggi politici, ricercando per ciascuna solo gli esecutori. Ora bisognerebbe andare oltre. Cercare i mandanti. Perché, come scrivono gli autori: “Abbiamo un debito nei confronti delle vittime che aspettano giustizia, e un dovere nei confronti di quanti ricercano la verità su cinquanta anni di strategia della tensione che hanno impedito il normale sviluppo democratico del Paese”.
Paolo Bolognesi e Roberto Scardova (a cura di)
STRAGI E MANDANTI. Sono veramente ignoti gli ispiratori dell'eccidio del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna?
Introduzione di Claudio Nunziata
Aliberti, pagine 347, 14,88 € anziché 17,50 su Internetbookshop
Incipit: “Come si scrive un noir? Quali sono i tortuosi percorsi per cui uno scrittore arriva a tessere certe trame? Quanto la vita personale di certi scrittori influisce sulla nascita di certi personaggi e di certe storie? Quali sono i meccanismi fondamentali della suspense? Quali sono le abitudini di scrittura più diffuse fra i maestri del genere?
Sono tante le domande che mi sono posto mentre radunavo i testi che propongo in questo libro. E così, partendo dal fatto che in quasi vent’anni di articoli e interviste sono stato un osservatore particolarmente fortunato di grandi maestri della letteratura internazionale del presente ma anche del passato, ho pensato che potesse essere divertente radunare alcune delle testimonianze di prima mano che ho avuto l’opportunità di raccogliere”.
Da una decina di anni circa le scrivanie degli editori italiani vengono quotidianamente sommerse da manoscritti. La casalinga, il politico, il calciatore, la conduttrice, il cantante … in pratica, chiunque sappia tenere in mano una penna o battere sulla tastiera di un computer un mattino si sveglia e decide di improvvisarsi scrittore. E, guarda caso, nel novanta per cento dei casi il genere letterario più frequentato e, bisogna dirlo, più abusato, è il poliziesco. Perché?
Viviamo in un Paese in cui la cronaca scodella ogni giorno storie di vita e malavita, molte delle quali superano in “neraggine” la più fervida immaginazione. Dunque, perché ostinarsi a competere con quello che realmente accade? Un vero mistero che ne contiene un altro: qual è l’origine dell’inversione di tendenza che ha portato il genere giallo a solleticare la fantasia di tanti autori e soprattutto di tanti aspiranti autori: professionisti e casalinghe che solo fino a una decina di anni fa lo snobbavano, preferendo cimentarsi in interminabili saghe familiari, romanzi di formazione, storie di viaggi, polpettoni storici e love story?
Ci voleva un intenditore appassionato come Luca Crovi per indagare sulle radici del noir, su cosa renda il crimine tanto attraente e sul perché in Italia questo genere narrativo attragga più aspiranti scrittori che lettori, visto che stando alle statistiche nel nostro paese si continua a leggere pochino.
Ideatore e conduttore della trasmissione di interviste in diretta “Tutti i colori del giallo” andata in onda per molti anni su Radio2, giornalista e critico di valore, Luca Crovi è uno dei massimi esperti italiani del genere noir. In questo libro, che sarà in libreria a partire dal 31 gennaio, ha riversato i segreti dei grandi maestri da lui incontrati personalmente e sulla carta. Ne è nata un’opera curiosa e divertente che contiene ottime ricette di scrittura catturate alla fonte, utili suggerimenti carpiti agli invidiatissimi autori di successo e un sacco di piccole e grandi rivelazioni dalle quali coloro che hanno in mente di scrivere il Grande Romanzo potranno trarre gli stimoli giusti per decidersi finalmente a farlo. Oppure per mettere da parte l’idea una volta per tutte.
Luca Crovi
NOIR ISTRUZIONI PER L’USO
Garzanti, pagine 372, 15,90 €
Se esistono luoghi nel nostro Paese, ormai martoriato anche dal punto di vista turistico, dove regnano la pace ed il silenzio (almeno prima e dopo agosto) queste sono le località che si affacciano sui tanti laghi d’Italia. Chi scrive ama il lago più di ogni altro luogo. Malinconico d’autunno, severo d’inverno, allegro in primavera, luccicante d’estate, il lago è il “posto delle fragole” di chi odia rumori di auto e discoteche, marmitte truccate ed insegne di negozi gridati. Intendiamoci, non tutte le località lacustri sono uguali. Molte ormai rischiano l’omologazione con il “mordi e fuggi” dei turisti in ciabatte e calzoncini corti. Ma tra i laghi che disperatamente cercano di salvare la loro specificità c’è certamente il Lago Maggiore. Personalmente preferisco l’alta costa occidentale vicina al confine con la Svizzera, ma devo ammettere che Stresa è sicuramente il centro vitale di tutto il lago. E proprio a Stresa si è svolta nel luglio scorso la prima edizione del Premio Giallostresa. I partecipanti dovevano inviare un racconto giallo in lingua italiana ambientato a Stresa o dintorni, comunque sulle sponde del Lago Maggiore. Sono stati selezionati i migliori 20 racconti che adesso formano un bel libro intitolato “Delitti d’acqua dolce”. Indubbiamente la particolare ambientazione che fa da suggestivo scenario, ma anche da filo conduttore, a tutti i racconti alimenta l’interesse per questo volumetto frutto di un’idea davvero stimolante. Difficile scegliere il migliore racconto. Qualcuno è troppo meccanicistico per essere credibile (poco convincente, ad esempio, “La sesta lezione” di Andrea Dellapina che punta sull’ammazzamento di cinque master chef cui fa seguito addirittura la strage di 25 turisti. Poteva essere ambientato ovunque). Altri invece penetrano alla perfezione nelle nebbie e nelle atmosfere invernali del lago come il racconto (“Il caso del cadavere scomparso”) di Mercedes Bresso, sì proprio lei l’ex governatrice della regione Piemonte prima dell’arrivo dei barbari leghisti. Molto affascinante un vero e proprio noir come “Neve perenne” di Riccardo Landini. Davvero originale – e non perché sia la responsabile di questa rubrica di misteri d’Italia, anzi di questa recensione lei non se sa proprio nulla - quello scritto da Adele Marini (“L’uomo delle correnti”). Ci è molto piaciuta l’idea di ispirare la trama del suo lavoro a fatti realmente accaduti attorno al lago Maggiore, come l’olocausto di tanti ebrei, Una storia sconosciuta che torna alla luce ai nostri giorni in un ambientazione lattiginosa, fatta di scrosci di quella pioggia che ti infradicia non solo nelle ossa ma anche nel cervello. Una storia estrema. Inserita in un libro da non perdere.
Ambretta Sanpietro e Luigi Pachì (a cura di)
DELITTI DI ACQUA DOLCE
Lampi di stampa, 13,52 € anziché 15,90 su Internetbookshop
Incipit: “Mia madre è deceduta all’età di settant’anni, quattro mesi, sei giorni, cinque ore. Nata sotto il segno dei gemelli, morta sotto quello della bilancia. Sedeva sulla poltrona in velluto logoro del salotto tra luci annottate, ghepardi e levrieri in ceramica alti mezzo metro, editti napoleonici in cornici d’argento e quadri tipo natura morta con calamaio, mentre composizioni di fiori secchi in anfore di terracotta pendevano dal soffitto rosa antico. In silenzio fissava per ore qualcosa davanti a sé. Cosa vedesse non so. Se rompevo l’involucro del suo straniamento e le chiedevo qual era la più grande isola italiana, mi rispondeva: l’Isola di Pasqua”.
In Italia si ostinano a proibire tutto quello che tocca la sfera della maternità da prima del concepimento fin dopo il parto. Tutto, tranne la dignità e il diritto a una vita dignitosa di chi è nato in condizioni difficili o con gravi imperfezioni. Questa crudele tenacia sostenuta dalle leggi ispirate alla bioetica che chiamano “tutela della vita prenatale” è di fatto per molti cittadini una sciagura perché si trovano a fronteggiare da soli situazioni impossibili se il frutto del concepimento, tanto rigidamente tutelato nonostante la legge 194 (quella che consente l’aborto in una struttura pubblica), si rivela affetto da malformazioni. Questo romanzo è ispirato a una storia vera, una delle tante che la cronaca scodella ogni giorno all’ora di cena. Una madre alla quale non è stato consentito di abortire, nonostante il feto fosse apparso da subito imperfetto, sopprime il figlio affetto da idrocefalia subito dopo averlo portato a casa dalla clinica. Il gesto, tremendo, suscita, come si può facilmente immaginare, una selva di polemiche che minaccia di travolgere anche la giovane avvocatessa incaricata di difendere la donna, rea confessa.
L’autore, Paolo Grugni, pacifista, animalista militante, attivista convinto in difesa dell’ambiente, ancora una volta ha scelto di scrivere una storia destinata a entrare in conflitto con il benpensantismo ipocrita che continua ad ancorare il nostro paese all’oscurantismo del cuore e della ragione. Il romanzo che ne è scaturito è assolutamente godibile e, nonostante la cupaggine dell’argomento e il pessimismo che pervade la narrazione, riesce spesso a strappare il sorriso illuminato com’è da sprazzi di umorismo (nero, naturalmente). Una lettura per chi ama andare oltre le storie, oltre le parole, oltre la pura e semplice evasione.
Paolo Grugni
La geografia delle piogge
Laurana editore, pagine 165, 12,32 € anziché 14,50 su internetbookshop
Incipit: “Regalo di Natale. Le lettere sono state inviate due giorni prima del Natale 2011. Ma non contenevano messaggi di auguri. Erano avvisi di licenziamento. Così le 239 lavoratrici dell’Omsa di Faenza, già in cassa integrazione, hanno saputo che la fabbrica di calze sarebbe stata chiusa definitivamente entro un paio di mesi. L’azienda, la Golden Lady, ha deciso di trasferire la produzione in Serbia: è uno dei tanti casi di delocalizzazione a danno dei lavoratori italiani.
Negli stessi giorni la Banca centrale europea (Bce), la potente istituzione di Francoforte creata per tenere sotto controllo l’inflazione nei paesi dell’euro, ha distribuito un fiume di denaro, 489 miliardi di euro. Soldi prestati per tre anni alle banche europee al tasso ridicolo dell’1 per cento annuo”.
La crisi si inasprisce sempre più e sembra che la cura Monti stia giovando solo a coloro che sono stati la causa della patologia finanziaria: appunto banchieri & compari. La recessione, unita alla corruzione, alla speculazione selvaggia, all’evasione fiscale sta distruggendo quel che resta delle risorse finanziarie e ormai sembra che non sia più possibile fermare la spirale perversa: più tasse (ai soliti noti) = meno soldi da spendere = meno consumi = meno lavoro per le aziende = meno posti di lavoro = meno cittadini che possono pagare le tasse e fare acquisti = ancora più tasse a un numero sempre più basso di contribuenti. E si torna da capo.
Eppure le banche italiane per superare la crisi e rimettere in moto l’economia attraverso finanziamenti mirati alle imprese hanno ricevuto dalla Bce 270 miliardi di prestiti a buon mercato. Più di un quarto del totale elargito in Europa. Perché non fanno più credito? Perché lasciano fallire le piccole e medie imprese, negando perfino quelle boccate di ossigeno, garantite dalle commesse di lavoro che permetterebbero di mantenere al loro posto i dipendenti? Perché, dopo aver ricevuto il denaro della Bce all’1%, lo prestano (quando lo prestano!) a tassi esosi? Dove sono finiti i soldi? Chi ha pagato e continua a pagare la crisi? Perché l'Italia continua a non crescere mentre la disoccupazione ha toccato livelli da dopoguerra? Perché il paese si sta impoverendo?
Sono tutte domande che i cittadini si pongono ogni giorno e alle quali i politici si affannano a trovare risposte convincenti, soprattutto da quando la campagna elettorale ha preso il via. Ma a chi credere se la fiducia nei politici e nelle istituzioni si sgretola ogni giorno di più?
Questo libro, scritto da un giornalista di provata esperienza nel campo dell’alta finanza, che non intende candidarsi e quindi è fuori dai giochi, racconta con uno stile fluido e comprensibile a tutti come la pioggia di denaro facile proveniente dal grande bancomat di Francoforte sia stata impiegata per fare speculazioni sui titoli di Stato il cui rendimento, come si sa, sale proporzionalmente alla salita dello spread e all’aumento del rischio. Ma non è tutto. Se, da un lato, le banche, con i prestiti della Bce, alla fin fine sostengono la solvibilità dello Stato, sia pure facendo lauti guadagni, dall’altro la loro politica taccagna nei confronti dei cittadini e degli imprenditori si intreccia con la mala finanza: speculazioni al limite del codice penale, partecipazioni a matrioska nelle società finanziate con denaro pubblico, conflitti di interesse senza vergogna, delolicazzioni di aziende al solo scopo di realizzare profitti stellari, spericolate triangolazioni con l’estero per sottrarre capitali al fisco. Tutta una selva di comportamenti scorretti se non addirittura illeciti che arricchiscono oltre misura pochi a danno di milioni di cittadini in caduta libera al di sotto della soglia di povertà.
Gianni Dragoni
BANCHIERI & COMPARI. Come malafinanza e cattivo capitalismo si mangiano i soldi dei risparmiatori
Chiarelettere, pagine 176, 12,75 € anziché 15,00 su Internetbookshop
Incipit: “La telefonata le era arrivata una mattina di dicembre. Era a Napoli, a casa di Teresa, la sorella. La sera precedente si erano dette che se il tempo l’avesse permesso avrebbero fatto una gita in costiera. Capitava, in quella stagione, quando la giornata era abbastanza tersa e si poteva anche mangiare all’aperto, all’ora di pranzo. E così, appena sveglia, Serena era corsa alla finestra. Pioggia”.
Ogni tanto, per tirare il fiato fra un truce mistero e un intrigo pieno di sangue, un romanzo-romanzo ci sta. In fondo tutto il peggio che gli scrittori riescono a immaginare alla fine capita davvero e quindi nessuna narrazione si può dire totalmente avulsa dalla realtà. L’importante è scegliere romanzi di buon livello, che appaghino la mente e restituiscano bellezza alla parola.
Villa tre pini di Marco Polillo risponde in pieno a questi due requisiti. E’ un giallo che più classico di così non si potrebbe. Una storia alla Agatha Christie, con molti personaggi, fra cui un vicecommissario dal nome buffo: Enea Zottia, che si ritrovano a passare la vacanza di Capodanno in una grande villa nelle vicinanze di Stresa, invitati, ciascuno all’insaputa degli altri, dalla padrona di casa. Alcuni di loro si conoscono, altri no. Tutti ignorano di condividere un segreto del passato che lega i loro destini.
Trattandosi di un thriller, non si può dire di più sulla trama che è davvero avvincente. A colpire è però lo stile estremamente colto e raffinato dell’autore che riesce a far vivere emozioni, sensazioni, atmosfere senza sprecare parole. Cioè senza ridondanze, e soprattutto senza avvalersi di metafore, ossimori, similitudini, sineddochi et similia a ogni paragrafo, come sono soliti fare gli scrittori di casa nostra perennemente alla ricerca di un senso letterario.
Una scrittura limpida, semplice, distaccata, illuminata a tratti da guizzi di ironia. A volte un tantino fredda, ma assolutamente godibile dalla prima all’ultima parola. Del resto non ci si sarebbe potuti aspettare niente di meno da Marco Polillo, presidente dell’associazione italiana editori e fondatore della casa editrice che porta il suo nome: uno che di scrittura, propria e altrui, se ne intende.
Marco Polillo
VILLA TRE PINI
Rizzoli, pagine 305, 15,30 € anziché 18,000 su Interentbookshop
Incipit: “(della prefazione di Giuseppe de Lutiis). Un noto servizio Molto occulto. Forse vi sono altri paesi nei quali, dal dopoguerra a oggi, sono proliferate altrettante strutture occulte e parallele, civili e militari, quante ne abbiamo individuate in Italia negli ultimi trent’anni. O forse no, forse la nostra fin troppo abusata giustificazione di essere “una portaerei nel mediterraneo”, un “paese cerniera fra l’Est e l’Ovest”, e tra il Nord industrializzato e il Sud povero di risorse ma ricco di petrolio, ha fatto conquistare al nostro paese un poco invidiabile primato”.
“Un archivio “altamente tossico”. La storia che stiamo per raccontare riguarda un servizio segreto rimasto fino a oggi sconosciuto: si chiama “noto servizio” o “Anello” ed è stato un pezzo di quel mondo occulto che ha giocato un ruolo importante nelle vicende della nostra Repubblica. Non è un romanzo ma un’inchiesta, dunque la fantasia non potrà colmare inevitabili vuoti”.
Questo libro, ancora molto richiesto e quindi in vendita, non si trova sugli scaffali delle novità. La prima edizione è del 2009. Lo riproponiamo perché potrebbe rivelarsi un utile strumento di conoscenza soprattutto oggi, mentre è in atto una furibonda campagna elettorale. E per conoscenza intendiamo uno sguardo approfondito sui personaggi e sugli eventi che hanno orientato il corso della nostra storia dal dopoguerra a oggi facendogli prendere un’unica direzione: quella indicata dai signori che stanno al di là dell’Atlantico.
Intrighi, delitti, turbative di campagne elettorali, accordi con la criminalità organizzata, stragi e relativi depistaggi: è capitato di tutto negli anni appena trascorsi. Tanti episodi che hanno suscitato indignazione ma che poi, raramente, hanno fatto nascere in pochi, temerari, magistrati, in giornalisti coraggiosi, il bisogno di guardare oltre i fatti, di trovare collegamenti fra gli eventi criminosi, di cercare una risposta davvero completa alla domanda che è il fondamento del nostro ordinamento penale e civile: “cui prodest?” A chi giova?
Ci sono stati e continuano a esserci in Italia personaggi ai vertici di un potente superservizio segreto clandestino che ha operato in Italia, parallelamente ai servizi ufficiali, dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli inizi degli anni Ottanta, con finalità antidemocratiche e con mezzi totalmente illegali. Questi signori hanno agito al di fuori dalle regole costituzionali, ovviamente all’insaputa della maggioranza dei parlamentari. Praticamente un club per pochi soci che ha travalicato la costituzione, condizionando le legittime scelte politiche degli italiani. L’esistenza di questo superservizio, indicato nelle poche carte disponibili, come ‘noto servizio’ o anche ‘Anello’ per la circolarità della sua struttura, è uno scheletro uscito solo nel 1998 da uno dei tanti armadi della vergogna che ancora racchiudono la faccia in ombra di questo paese. A scoprirne casualmente l’esistenza è stato il professor Aldo Giannuli, ricercatore ed esperto di storia contemporanea, grande conoscitore di trame eversive e consulente della Commissione parlamentare per le stragi.
Il professor Giannuli stava cercando documenti sulla strage di piazza Fontana per conto del giudice Guido Salvini quando, frugando fra i faldoni accatastati nell’archivio segreto del Viminale, rinvenuto casualmente in una palazzina sulla via Appia, si è imbattuto in un mucchio di carte ancora contrassegnate dal timbro che distingue i documenti sottoposti al segreto di Stato. Tutta roba non catalogata, proveniente dall’Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno. Fra quelle carte ingiallite e mal conservate, una in particolare ha attratto la sua attenzione. Una nota informativa, anonima, le cui prime righe recitavano testualmente: “Questa è la storia di un servizio di informazioni che opera in Italia dalla fine della guerra e che è stato creato per volontà dell’ex capo del Sim, generale Roatta.” Seguivano quattro pagine di appunti che parlavano di attività e di persone di cui nessuno aveva avuto notizia prima. Attività e persone che non avevano niente a che fare con la già nota Gladio e la P2 di Licio Gelli, anche se diversi personaggi cavalcavano tutte e tre le organizzazioni. Dunque non stiamo parlando di un’organizzazione che comprende quelli che normalmente si identificano impropriamente come ‘servizi deviati’, ma di un’entità mostruosa e potentissima che è stata al vertice di tutto per oltre sessant’anni, manovrando uomini e partiti, criminali e persone oneste, depistando, infiltrando e, quando si rendeva necessario, assassinando.
Questo libro ne ha seguito le tracce attraverso un’indagine difficile e complessa, condotta fra mille difficoltà da Stefania Limiti che ha avuto il coraggio di rovistare fra i panni sporchi di questo Paese, cercando persone, spulciando documenti, ascoltando e registrando storie terribili. Spesso collegando episodi isolati e inspiegabili: dalle stragi politiche a quelle mafiose, dal sequestro di Aldo Moro, alle bombe sui treni, dalla finta fuga del nazista Kappler dal Celio, alle trattative per il rilascio di Ciro Cirillo. Fino alla soppressione, mediante suicidio o incidente stradale, di testimoni scomodi.
Stefania Limiti
L’ANELLO DELLA REPUBBLICA. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal Fascismo alle Brigate Rosse
Prefazione di Giuseppe de Lutiis
Chiarelettere, pagine 337, 13,60 € anziché 16,00 su Internetbookshop
Incipit: “(dall’introduzione di Luciano Violante): L’assassinio dell’uomo di Stato ha costituito, tradizionalmente, un capitolo della teoria del tirannicidio: l’eliminazione fisica del tiranno come gesto disperato ed estremo contro chi aveva cancellato libertà e diritti”.
“L’orlo del baratro. Roma, giovedì 16 marzo, 19768. Poco prima delle 9 di mattina il presidente della democrazia cristiana, Aldo Moro, sale in macchina sotto la sua casa in via Forte Trionfale numero 79. L’appuntamento che non vuole mancare è il frutto del suo lavoro politico degli ultimi anni: l’apertura della maggioranza parlamentare al partito comunista italiano. Il progetto, che aveva preso corpo nella mente di Moro da tempo, sta per diventare realtà”.
Proprio mentre stavamo scrivendo è arrivata la notizia della morte di Prospero Gallinari stroncato da una crisi cardiaca nel garage di casa sua, a Reggio Emilia. L’ex brigatista, scarcerato a metà degli anni Novanta per motivi di salute ma pur sempre agli arresti domiciliari, è uno dei protagonisti di questo libro nel quale vengono ricostruite tutte le fasi del rapimento di Aldo Moro e delle non-indagini piene di depistaggi, falsi comunicati, errori veri e fasulli, sviste e leggerezze che hanno caratterizzato i 55 giorni della prigionia, facendo di tutto perché l’appartamento di via Gradoli in cui era tenuto prigioniero il presidente della Dc non venisse individuato in tempo. Ed è un curioso contrappasso quello che segna la morte di Gallinari. Infatti, chi a suo tempo ha seguito l’evento, ricorderà certamente che Aldo Moro fu assassinato dentro il bagagliaio della Renault rossa proprio nel garage di via Gradoli da un gruppo di brigatisti del quale faceva sicuramente parte Prospero Gallinari al quale, in un primo tempo, fu materialmente attribuito l’omicidio.
“La tela del ragno” è un libro-dossier pubblicato per la prima volta nel 1988, esattamente dieci anni dopo la strage e il rapimento e aggiornato fino al 2003 che ancora oggi risulta un documento di grande valore storico non solo perché è fondato sui documenti della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ma perché il libro, che si legge come un romanzo nero, è stato scritto, per così dire, dall’interno essendo Flamigni uno dei senatori che hanno seguito passo dopo passo quei drammatici giorni e che, dopo la morte di Moro, entrò a far parte della commissione parlamentare d’inchiesta.
Un senatore scomodo, Flamigni. Molto critico nei confronti del capo del governo Andreotti e del ministro dell’interno Cossiga, scettico nei confronti dello strano Comitato interministeriale per la sicurezza (Cis) voluto e presieduto da Giulio Andreotti dopo il sequestro, le cui riunioni fiume si riveleranno assolutamente inconcludenti. Il suo archivio, oggi consultabile da tutti presso il centro di documentazione di Oriolo romano in provincia di Viterbo, raccoglie documenti importantissimi e inediti non solo Caso Moro ma anche sulle stragi, sulla P2, su Gladio. Quando scrisse questo libro, basandosi proprio su quei documenti, mancavano dieci anni alla scoperta del deposito segreto del Viminale sulla via Appia antica, quello in cui si troveranno tracce del grande complotto che starebbe a monte degli episodi più oscuri che hanno segnato la nostra storia recente. Si sapeva solo dell’esistenza di una massoneria deviata chiamata P2 e si andava delineando il profilo di un progetto atlantico anticomunista disposto a passare sopra tutto, anche sopra le garanzie democratiche, pur di impedire che i comunisti si avvicinassero all’area di governo. Eppure leggendo la cronaca di quei 55 giorni si poteva già intuire che attorno allo statista e alla nostra repubblica era stata tessuta una gigantesca tela di ragno.
Sergio Flamigni
LA TELA DEL RAGNO. Il delitto Moro
Kaos, pagine 409, 20 €
Incipit: “L’irragionevole durata della giustizia. “Se lo Stato italiano dovesse risarcire tutti i danneggiati dalla irragionevole durata dei processi, non basterebbero tre leggi finanziarie”. Nel gennaio 2007 la battuta del presidente della Cassazione, Gaetano Nicastro, sembrava solo un efficace paradosso. Invece a dicembre è stata scavalcata dal rapporto del ministero dell’Economia”.
Ecco un altro libro d’antan – uscito nel 2008 e aggiornato fino al 2012 -che merita un’attenta rilettura alla luce della recente condanna inflitta all’Italia dalla corte di Strasburgo per la “violazione dei diritti umani dei detenuti”.
E’ noto a tutti che i detenuti nelle carceri italiane sono “vittime di un trattamento inumano e degradante”, così hanno scritto i giudici (che hanno riconosciuto un risarcimento a sette detenuti nel carcere di Busto Arsizio) tenendo ben presente il numero di suicidi fra i detenuti in attesa di giudizio. Meno noto invece è l’altro aspetto del problema: in Italia anche chi non ha la sfortuna di incappare nelle maglie della giustizia paga ugualmente un conto salato. Quello della lentezza dei processi e dell'inaffidabilità di un sistema giudiziario, che consumano miliardi di euro all’anno senza raggiungere risultati apprezzabili visto che da noi i corruttori continuano a i loro loschi affari e questo si ripercuote pesantemente sull’economia, mentre i malviventi, i mafiosi, i pluripregiudicati continuano a rendere insicure le strade e la vita dei cittadini ritrovandosi a piede libero per colpa delle prescrizioni.
«Fine pena mai» titolo preso dalla dicitura che compare in fondo ai fascicoli di chi viene condannato all’ergastolo, è un viaggio guidato su un pianeta sconosciuto e inospitale che assegna meno di tre metri quadrati di spazio vitale agli esseri umani. Scritto da Luigi Ferrarella, cronista giudiziario del Corriere della Sera, dà voce non sono solo alle persone, con le loro storie di vita quotidiana dietro le sbarre. Ma fa parlare i numeri che, con la perfetta asetticità della matematica, disegnano un quadro sconfortante e assurdamente costoso, pieno di sprechi e di una giustizia amministrata a colpi di ingiustizie non per colpa dei magistrati e delle forze dell’ordine ma di un sistema giudiziario malato e fatiscente tenuto in piedi da politici sensibili solo ai temi demagogici che fanno guadagnare consensi.
Perché non funziona la giustizia? Perché è un buco nero che inghiotte “più di 7,7 miliardi di euro l’anno” (era la stima del 2007, anno di uscita della prima edizione del libro). Che fine fanno i nostri soldi? Servono, spiega l’autore, “Per impiegare in media 5 anni per decidere se qualcuno è colpevole o innocente; per far prescrivere da 150 a 200 mila procedimenti l’anno, record europeo; per incarcerare ben 58 detenuti su 100 senza condanne definitive; per dare ragione o torto in una causa civile dopo più di 8 anni, per decidere in 2 anni un licenziamento in prima istanza; per far divorziare marito e moglie in sette anni e mezzo; per lasciare i creditori in balia di una procedura di fallimento per quasi un decennio; per protrarre 4 anni e mezzo un’esecuzione immobiliare» (sono sempre cifre riferibili al 2007. Oggi i costi sono molto saliti).
Una bella inchiesta giornalistica che offre un tassello in più per completare il grande mosaico della crisi e per sfatare la grande bugia che assegna ai magistrati tutte le colpe della malagiustizia. Leggendo questo libro si potrà infatti scoprire come alla cronica lentezza dei processi italiani, dovuta ai continui tagli delle spese in un meccanismo già ridotto all’osso, si contrappongano magistrati che lavorano più di quanto dovrebbero portandosi spesso i fascicoli a casa e pagando di tasca propria le spese per le riparazioni dei computer, per la carta delle stampanti, per la cancelleria. Se il tema affrontato è duro, lo stile della narrazione è asciutto e godibile non privo di lampi di ironia. Assolutamente da leggere non solo per sapere, ma anche per capire come sia avvenuto che nel paese di Cesare Beccaria il sistema carcerario sia diventato una potente istigazione al suicidio.
Luigi Ferrarella
FINE PENA MAI. L'ergastolo dei tuoi diritti nella giustizia italiana
Il Saggiatore, pagine 220, € 15,00 disponibile su www.macrolibrarsi.it