Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

Incipit: Questo libro. “Sono stati i fascisti” annunciò il direttore dopo averci convocati tutti nel suo ufficio. Era il tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969. La piccola redazione de Il Mondo di Arrigo Benedetti si affacciava sull’Arno e sul Ponte Vecchio. Poche le luci sul fiume. Ricordo che pareva già notte. Benedetti non era un giornalista sprovveduto e quello che diceva, per me, era  vangelo. Ci trovammo così da subito, dalle prime ore dopo la strage di piazza Fontana, con quella certezza che nessuna versione ufficiale successiva avrebbe scalfito.
Da lì è cominciata la storia che mi riguarda e che riguarda molti dei giornalisti che per circa  trent’anni hanno raccontato l’Italia violenta del terrorismo, della mafia, della corruzione, del potere occulto e della grave defezione della classe dirigente che nel migliore dei casi non voleva sapere, o fingeva di non voler sapere. L’Italia dello Stato, il nostro Stato, e dell’Antistato che lo ha sempre insidiato.
Ricordo un giorno alla Camera dei deputati, primi anni Ottanta. Mi viene incontro Lelio Lagorio, ministro della Difesa, il sorriso stampato sul volto di uomo molto potente. D’un tratto quel sorriso scompare e si trasforma in un’espressione dura. «Se continui così finirai sotto un ponte» mi dice, e se ne va verso il Transatlantico dove lo aspetta il solito codazzo di giornalisti”.

Non solo i magistrati, anche i giornalisti hanno le loro agende rosse. Libriccini maneggevoli, che stanno in tasca, fitti di appunti, con le date delle interviste e delle ricerche, nomi, luoghi, circostanze e frasi misteriose a mo’ di promemoria. Queste agende non vengono mai buttate via. Ed è una fortuna perché rilette a distanza di tempo sono frammenti di storia, a volte perfino anticipazioni di quello che poi è realmente avvenuto. Pezzi di realtà che altrimenti andrebbero perduti.
L’agenda rossa di Sandra Bonsanti, grande maestra di giornalismo investigativo, che è la fonte da cui è scaturito questo libro che ha per titolo un’espressione di Giovanni Falcone, offre un campionario di memorie che ormai appartengono alla storia degli ultimi decenni ma che pochi conoscono e ancora meno desiderano approfondire.  Ovviamente ogni capitolo è legato a foschi personaggi, come Carmelo Spagnuolo, procuratore generale della Corte d’Appello, depositario dei segreti che legano Cosa nostra alle istituzioni: un tragico dualismo che spesso appare confuso nei suoi esatti controni, non ha ancora ceduto le armi. Come Licio Gelli con il suo piano di rinascita democratica (interamente attuato!), le carte uscite da Villa Wanda e gli elenchi della P2. Come Michele Sindona e lo spaventoso crac delle sue banche con gli omicidi come effetti collaterali abbondantemente prevedibili. Come i politici in lotta permanente contro i magistrati di Milano. Ed è curioso notare come ogni capitolo sia legato ad altri tramite personaggi ed eventi: una cascata inarrestabile di veleni che si riversa nella società inquinandola sempre di più.
Ma non tutto è da buttare via. Ai personaggi negativi incontrati dall’autrice si contrappongono persone che, mettendo il gioco la carriera e talvolta la vita stessa, hanno tenuto insieme i pezzi dello Stato migliore, lottando contro le forti raffiche del “vento del Nord” e gli uragani eversivi. Sono Ugo La Malfa, grande leader laico, Norberto Bobbio, Tina Anselmi, solo per ricordare pochi nomi.

Un libro importante, che aiuta a capire alla luce dell’ieri, quello che sta accadendo oggi.

Sandra Bonsanti

IL GIOCO GRANDE DEL POTERE. I misteri della Repubblica nel racconto della giornalista che li visse in prima persona

Postfazione di Gustavo Zagrebelsky

Chiarelettere, pagine 256, 10,96 euro anziché 12,90 su internetbookshop

Incipit: Dalla prefazione di Emanuele Macaluso. “Dopo la liberazione della Sicilia, la vecchia classe dirigente feudale e baronale che aveva sostenuto e poi usato il fascismo per mantenere il potere reale e congelare i vecchi rapporti sociali, cambiò pelle e si ripresentò con sembianze antifasciste e la divisa degli alleati anglo-americani. La mafia del feudo dormiente negli anni del fascismo seguì le stesse orme. Alcuni gruppi di quella classe dirigente sostennero il movimento separatista, altri rispolverarono il Partito liberale di Vittorio Emanuele Orlando, altri ancora pensarono che la conservazione poteva contare sul moderatismo del vecchio Partito popolare, ribattezzato partito democristiano, di Salvatore Aldisio”.
Premessa: “Avvicinarsi alla figura di Vito Guarrasi, sempre citato da tutti ma mai veramente ascoltato e compreso, ha richiesto da parte nostra  circospezione e cautela. Due atteggiamenti fondamentali per cercare di fotografare con la maggiore obiettività possibile uno dei personaggi più sfuggenti della storia italiana recente. Vito Guarrasi è stato tutto e il contrario di tutto, secondo chi ne ha scritto precedentemente, siano stati politici, magistrati, poliziotti, giornalisti e storici”.

Vito Guarrasi: “e chistu, cu è?” Ecco, l’essenza del personaggio sta tutta in questa frase: e questo, chi è?
Guarrasi è Mister X, l’uomo che ha fatto del bassissimo profilo, anzi, dell’invisibilità, una religione. Di ‘don Vito’, avvocato civilista al quale Gaetano Savatteri, nel suo saggio I siciliani attribuisce la frase “Cumannari è megghiu du futturi”, citato anche nel libro di Sandra Bonsanti, si sa che stato implicato per diritto o per rovescio in quasi tutte le fosche vicende siciliane, dall’attentato che costò la vita a Enrico Mattei in poi; che è stato un professionista di altissimo profilo, dispensatore di consigli a chiunque avesse denaro da investire nell’Ente Minerario Siciliano; che è stato il ‘consigliori’ giuridico dei cugini Salvo, i potentissimi esattori di Salemi; che è entrato nelle maglie delle indagini sulla sparizione del giornalista dell’Ora, Mauro De Mauro; che è stato artefice degli spostamenti a sinistra, al centro e a destra, secondo le convenienze, della politica siciliana da lui manovrata con l’abilità di un puparo. Eppure, quest’uomo grigio che ha incarnato il potere per oltre mezzo secolo, cugino di Enrico Cuccia, altro ‘invisibile’ ma senza vapori di zolfo, per i più, compresi i suoi conterranei, è un perfetto sconosciuto.  

In questo libro, frutto di una vera indagine giornalistica, introdotto da Emanuele Macaluso che ha conosciuto Vito Guarrasi per quanto a un essere umano fosse dato conoscere un personaggio così sfuggente, c’è tutto il volto in ombra dell’isola, quello del quale si immagina moltissimo ma si sa poco o nulla: dalle trattative per preparare lo sbarco di Cassibile agli alleati alle lotte contro il latifondo, dalle affiliazioni politiche fino agli accordi mafia-politica messi in luce dal processo a Giulio Andreotti del quale lo stesso don Vito fu uno dei testi più importanti. Gli autori, oltre ad aver reso pubblico il diario dell’avvocato, hanno unito i pezzi di eventi slegati, mettendo in fila fatti e personaggi. In questo modo, con un minuzioso lavoro d’indagine, sono riusciti a dare una visione almeno parziale del mistero di tutti i misteri: i pilastri della politica siciliana. In questo modo si è delineato il profilo sconosciuto della regione: una storia ‘dietro le quinte’ il cui cammino è stato tracciato quasi settant’anni fa col patto scellerato stretto dagli americani con la mafia. Un patto che ha condizionato l’intero paese e non è mai stato veramente sciolto.

Marianna Bartoccelli e Francesco D'Ayala

L’AVVOCATO DEI MISTERI. Storia segreta di Vito Guarrasi, l'uomo dei consigli indispensabili che ha condizionato il potere italiano

Prefazione di Emanuele Macaluso

Castelevecchi, pagine 187, 14,02 euro anziché 16,50 su internetbookshop

Incipit: “Prologo. Ieri, oggi, domani. La serata è tersa, la brezza leggera. Capri è così nitida che quasi si distinguono i profili delle case. Ci fosse la luna, da qui, sopra Posillipo, si vedrebbero pure le onde del mare. Don Michele sorride: calma e buia, la notte ideale per un grosso carico.
Il terzo turno è il suo. Così è stato stabilito con i compari siciliani, e così  racconterà il collaboratore Francesco Marino Mannoia: prima Tommaso Spadaro, poi Nunzio La Mattina, quindi gli scafi blu di don Michele, per ultimi gli uomini di Brancaccio. La «nave madre» attracca al largo, 35-40.000 casse per volta. Abbastanza per tutti, mafiosi e camorristi. In abbondanza per il più bravo, ’o Pazzo, che ha tenuto testa ai Marsigliesi e si è affiliato a Cosa nostra, ha venduto 5 milioni di chili di sigarette e fatturato 500 miliardi di lire”.

Il cuore matto perché malato, ma generoso per migliaia di dipendenti, sulle barche dipinte di blu come il mare o accanto alle cassette di frutta rovesciate a fare da tabaccherie clandestine. La testa fina, da guappo che capisce di commerci: «Usa ogni trucco per scaricare le sigarette nel proprio interesse, anziché in quello dei capi famiglia palermitani» racconta di lui, ridendo, Stefano Bontate a Tommaso Buscetta. Perché lo sanno tutti che nel settore è il numero uno, è lui ‘il re del contrabbando’, don Michele Zaza ’o Pazzo.
Questo libro è il resoconto di un lungo viaggio che parte da lontano. Precisamente dalla legge n. 646 del 1982, la celebre Rognoni-La Torre, varata sull’onda dell’emozione popolare dopo gli omicidi del parlamentare comunista Pio La Torre e del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, massacrato a Palermo con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e gli uomini della scorta (una strage della quale si parla malvolentieri per i troppi misteri che ancora la pervadono, ma questa è un’altra storia). Il disposto più noto della legge è l’introduzione dell’articolo 416bis, quello che contempla il reato di associazione mafiosa e dispone la confisca dei beni acquisiti illegalmente dai boss e dai loro gregari.
A compiere il lungo viaggio per verificare, sui luoghi, l’attuazione della 646 e del 416bis, soprattutto nella parte riguardante la confisca dei beni ai mafiosi e la loro assegnazione a enti e associazioni di pubblica utilità, sono le autrici di questo saggio: la giornalista Alessandra Coppola del Corriere della Sera, un’esperta in cronache di mafia e l’avvocato Ilaria Ramoni, di Libera, da sempre impegnata per vocazione e professione nella lotta alla criminalità organizzata.
Il loro resoconto è sconfortante.
Alessandra e Ilaria, nel libro, spiegano le cause di quello che, almeno parzialmente, è un fallimento. Eccone alcune: anzitutto la farraginosità della burocrazia perché ai decreti di assegnazione dei beni diventati proprietà dello Stato seguono sempre ritardi, mancanza di firme, atti che scompaiono, documenti che non vengono rilasciati in tempo. Poi, spesso, le assegnazioni sono parziali perché riguardano immobili e fondi indivisibili come case e terreni, appartamenti e imprese e questo costringe gli assegnatari a convivere da separati in casa con gli espropriati e le loro famiglie, con i rischi che è facile immaginare. Non solo, ma il più delle volte le proprietà confiscate sono gravate da ipoteche e mutui e, ovviamente, le banche si guardano bene dal collaborare.
Nel 2012 è stata creata un’Agenzia nazionale per l’assegnazione e la gestione di questo grande patrimonio ma, come spiegano Alessandra e Ilaria, questa entità non è stata messa in condizioni di funzionare. Risultato: «Dei 3.995 beni immobili ancora in gestione all’Agenzia, 2.819 presentano criticità e di questi 1.666 sono gravati da ipoteche (per 76 addirittura sono in atto i pignoramenti). Più di uno su tre, di fatto, sono inutilizzabili».E, ancora: «Su 1.7089 imprese confiscate, solo 60 risultano pienamente attive sul mercato, con dipendenti che effettivamente ogni giorno si presentano in ufficio o in fabbrica».

Si potrà migliorare qualcosa? Certamente, affermano le autrici che non mancano di dare conto anche dei (pochi) successi. Per farlo però, e qui sta il messaggio del libro, sarebbe indispensabile che lo Stato si decidesse a dichiarare guerra alla mafia e a combattere sul serio le organizzazioni criminali, oggi purtroppo considerate immensi bacini di voti.

Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni

PER IL NOSTRO BENE. La nuova guerra di liberazione. Viaggio nell'Italia dei beni confiscati

Chiarelettere, pagine 160, 10,96 euro anziché 12,90 su internetbookshop

Incipit:Manifesto dei Signori Rossi. I Signori Rossi sono cittadini attivi che partecipano accanto alle istituzioni alla corretta gestione dei beni comuni, prestando il loro contributo volontario per  migliorare il servizio pubblico e per sensibilizzare gli altri cittadini al rispetto dei beni comuni. I Signori Rossi sorvegliano i politici e gli amministratori nella gestione dei beni comuni affinché non vengano compiuti reati di corruzione. I Signori Rossi creano cultura della legalità e diffondono gli anticorpi alla corruzione all’interno del sistema sociale attraverso mobilitazioni dal basso e azioni di sensibilizzazione in rete. I Signori Rossi approfondiscono i fatti, studiano e vanno sempre fino in fondo alle vicende per cercare la verità e diffonderla tra gli altri cittadini e difendono il principio per il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. I Signori Rossi assumono incarichi politici in senso alto per diffondere all’interno dei soggetti partitici, nelle istituzioni pubbliche e tra i cittadini, un modello etico per gestire i beni comuni e governare il territorio. I Signori Rossi sono amministratori pubblici etici che diffondono la cultura del servizio tra i lavoratori, facilitano la partecipazione dei cittadini alla gestione delle aziende pubbliche e della vita politica attraverso una condotta trasparente e aperta al dialogo e  garantiscono la qualità dei servizi pubblici. I Signori Rossi mettono l’efficienza dei servizi pubblici e il benessere delle persone al di sopra dell’arricchimento personale e denunciano la corruzione per difendere il vivere comune. I Signori Rossi sono vicini ai testimoni di giustizia per senso civico e spirito comunitario e si impegnano a sostenere la loro lotta per la giustizia e contro ogni forma di isolamento mediatico e istituzionale o di turbamento psichico e indebolimento economico e professionale. I Signori Rossi sostengono le azioni di sensibilizzazione per la diffusione dell’etica nella pubblica amministrazione mettendo in comune le proprie competenze e la propria reputazione professionale e la capacita di influenzare altri soggetti nella propria rete sociale di contatti.
I Signori Rossi sono le persone comuni che difendono i beni comuni”.

In questo lungo estratto che abbiamo pubblicato integralmente ci sono già tutti gli elementi su cui si fonda questo libro. I ‘signori Rossi’ sono i cittadini comuni che l’etica e il buon senso, il rispetto della legalità e delle regole fondamentali per la convivenza civile dovrebbero indurre a comportarsi come se il bene comune fosse proprietà esclusiva di ciascuno. Vale a dire con vigilanza, correttezza e comportamenti virtuosi esercitati sempre, non soltanto in risposta a campagne sporadiche nate sull’onda dell’emotività.
Punto di partenza dei “Signori Rossi” è lo smaltimento dei rifiuti, attività che sta al top nell’elenco delle occasioni di corruzione ed è banco di prova del livello di civiltà dei cittadini. Non a caso uno degli autori, Raphael Rossi, con un passato da pubblico amministratore  in città come  Torino, Napoli, Reggio Calabria e Parma, è uno specialista nella raccolta differenziata e nel libro ripercorre la sua esperienza a Napoli mettendo in luce lo strapotere della criminalità che proprio sui rifiuti fa grandi affari. Insieme con i coautori Alberto Robiati, scrittore e giornalista e Stefano Di Polito, esperto in comunicazione pubblica e sociale, Raphael Rossi ha dato vita al movimento “Signori Rossi: corretti non corrotti”.
Questo libro è nato dall’esigenza di sensibilizzare tutti i “Signori Rossi” d’Italia affinché ciascuno si impegni, nel proprio piccolo, a dare il buon esempio senza aspettarsi applausi e riconoscimenti, ma, semplicemente, perché così si fa. Una rivoluzione civile pacifica e virtuosa, che potrebbe davvero portare l’Italia, tutta l’Italia non soltanto certe regioni privilegiate, in Occidente, fra i paesi presi a esempio per il livello di civiltà.

Ecco alcuni facili esempi di comportamenti virtuosi: non attraversare col rosso ai semafori anche se la strada è sgombra, non correre oltre il limite, non inquinare versando negli scarichi  oli e acidi per i quali è previsto uno smaltimento separato: piccoli gesti che, come spiegano gli autori, possono dare il via a una nuova coscienza sociale.

Stefano Di Polito, Alberto Robiati, Rapahel Rossi

C’E’ CHI DICE NO. Come i cittadini possono risanare lo Stato

Chiarelettere, pagine 244, 11,05 euro anziché 13,00 su internetbookshop

Incipit:Ciruzzo ‘Stiv Ciops’ era soltanto un volto. Nel buio della stanza la luce del monitor ne illuminava la sagoma dalle spalle in su. Ed era un bene, in fin dei conti, perché se già la faccia sembrava un panettone con tanto di uva passa, il resto era coerente con l’insieme. Lo schermo del Pc parlava una lingua che solo lui e pochi altri erano in grado di capire. Numeri, stringhe, codici sorgente. Le nottate trascorse al computer con un posacenere stracolmo e un blister di anfetamine made in India non avevano fatto altro che accentuare i tratti peggiori di un uomo nato sfortunato. Molto poco in comune col big della Apple da cui aveva maldestramente ereditato il nome.
A modo suo, però, Ciruzzo Stiv Ciops era un genio. Fortuna che qualcuno aveva deciso di valorizzarne il talento. Altrimenti, quel giovanotto riccioluto col pancione premaman e i capelli unti sarebbe rimasto un fruttivendolo a vita. Ora aveva un conto in banca adatto alla sua persona: sovrappeso. In più, aveva il rispetto dei ‘guaglioni’.
All’inizio il clan era entrato in crisi. I pezzi da novanta si erano riuniti più volte senza riuscire a decidere. Ognuno diceva la sua, i boss scuotevano la testa, qualcuno bestemmiava, e ci si riaggiornava a data da definire. Il problema era di importanza cruciale: come inserirlo nella gerarchia della famiglia? Un programmatore è più o meno importante di uno spacciatore? E’ più o meno importante di un rapinatore? E’ più o meno importante di un estorsore? E di un killer? E di un commercialista? Alla fine gli avevano dato i gradi di “capo piazza”, una sorta di super pusher che coordina gli spacciatori all’interno di una determinata area. E a lui andava bene, anche perché nulla escludeva una futura promozione”.

Dentro il carcere napoletano di Poggioreale, chiamato affettuosamente Poggi-Poggi dai suoi inquilini, è rinchiuso lo Zio, temutissimo boss di camorra, protagonista anche del libro precedente di Stefano Piedimonte: Nel nome dello Zio, appunto.  
Inchiodato ai suoi crimini da una ‘cantata’ lo Zio vive le sue giornate in cella fra pensieri di vendetta, piani per evadere e le puntate del Grande Fratello per le quali ha una passione insana. Il suo grido di libertà però non rimane a lungo inascoltato. Lo raccolgono i ‘bravi uaglio’ che si attivano immediatamente per farlo evadere e per metterlo sulle tracce del traditore, anzi, della traditora: l’ex moglie Gessica, che vive a Milano, ben nascosta dal programma di protezione dei testimoni.
Grazie soprattutto a quel genio del computer che è Ciruzzo Stiv Ciops,  un ex fruttivendolo riciclatosi come consulente informatico al servizio della criminalità e al suo  braccio destro ‘Spic e Span’, così soprannominato per la bravura con cui ripulisce le scene del crimine dopo gli omicidi, lo Zio, evade davvero e si lancia sulla sua preda. Ma ha alle calcagna il poliziotto Wu che lo aveva fatto arrestare ed è deciso a portare a termine una sua personale crociata contro la Camorra.
Dire che il ridicolo uccide più della pistola è sicuramente eccessivo, ma la frase ha pur sempre una sua dignità. Lo dimostra questo piccolo gioiello della narrativa napoletana che si muove abilmente fra satira e verità mettendo a nudo la pochezza intellettuale dei boss e dei loro gregari, le meschinità, l’infinita miseria materiale di chi accumula denaro e poi condanna se stesso a vivere nello squallore di un nascondiglio sotto terra o di una cella.

Stefano Piedimonte è davvero una rivelazione e i suoi libri vanno presi sul serio perché se da un lato ridicolizzano la malavitanza raccontando i Capi dei capi esattamente come sono: creature prepotenti, rozze , dai gusti volgari e dalle aspirazioni primitive, dall’altra raccontano storie vere, situazioni vere, momenti autentici ben inseriti in ambienti che sono fotografie del tessuto sociale in cui prolifera la camorra.

 

Stefano Piedimonte

VOGLIO SOLO AMMAZZARTI

Guanda, pagine 250, 12,00 euro anziché 16,00 su internetbookshop

Incipit:Si dice cha la realtà a volte superi la fantasia. La storia di Morten Storm ne è la dimostrazione.
Il 7 ottobre 2011. Alle 12,14, la centralinista di Aarhus della redazione del quotidiano Jyllands-Posten ricevette la telefonata di un uomo che asseriva di aver dato la caccia ai terroristi di al-Qaeda e di lavorare per la CIA e per il servizio di intelligence della polizia danese (PET). Anche se pensava che fosse una storia campata in aria, la centralinista passò la telefonata alla redazione.

Chi ha mai sentito parlare di Morten Storm? Eppure è l’uomo che ha permesso agli americani di scovare il numero due di al-Qaeda: Anwar al-Awlaki.
Morten Storm è un giovane danese segnato da un’infanzia di violenza che ha fatto di lui uno sbandato, un ragazzo incapace di tenere a freno i pugni. Dopo un’adolescenza passata fra la strada e il carcere minorile entra in un gruppo di biker più duri di lui. Finisce in prigione e lì si perfeziona nell’arte di fare soldi col contrabbando. Altra carcerazione e poi la svolta: in prigione si converte all’islam integralista arrivando a diventare un jihadista convinto, pronto a partire, dopo la scarcerazione, per la Somalia per unirsi ai capi delle Corti islamiche che stanno cercando di instaurare nel Paese una shari’a particolarmente brutale. Sarebbe diventato un terrorista: una macchina di morte se qualcosa a un certo punto non fosse scattato dentro di lui e non lo avesse spinto a passare dall’altra parte della barricata, a mettersi al servizio dapprima dell’intelligence della polizia danese e poi dei Servizi di mezzo mondo.
Da jihadista pronto a tutto per la guerra santa dell’Islam, Morten Storm (il nome è quello di copertura) da un giorno all’altro decide di sfruttare le sue conoscenze e la reputazione che si è fatto nel mondo islamico per diventare una spia al servizio dell’Occidente. Di più: per infiltrarsi in uno dei gruppi più feroci del mondo. I capi di al-Qaeda  si fidano di lui. Lo considerano uno di loro. Così, attraverso contatti pericolosi, compiendo equilibrismi sul filo teso fra i due mondi in guerra permanente, vivendo ogni minuti col timore di essere smascherato, Morten riesce ad aiutare la Cia a localizzare il feroce Anwar al-Awlaki che, dopo un primo attentato fallito, viene eliminato con un attacco di droni.
La cattura di al-Awlaki è l’ultima missione della spia danese. Dopo anni di doppia vita nelle zone di guerra più pericolose del pianeta, Storm esce definitivamente dallo scenario dell’intelligence internazionale.
Questo libro non è un romanzo. Scritto a sei mani da tre prestigiose firme del «Jyllands-Posten», il quotidiano danese finito nel mirino degli integralisti per aver pubblicato vignette satiriche su Maometto, racconta, attraverso le parole dell’infiltrato la jihad vista dal suo interno, svelando molti dettagli inediti anche su Abu Omar. Nel 2012 gli autori hanno ottenuto il prestigioso European Press Prize per il miglior reportage giornalistico.

Orla Borg, Carsten Ellegaard Christensen Michael Holbeck

L’ULTIMO INFILTRATO. Una storia vera

Newton Compton, pagine 279, 10,96 euro anziché 12,90 su internetbookshop

Incipit:Palazzo Burcardo, 16 maggio 1506. Il morto, privo di vesti e con le carni inflaccidite che tradivano inesorabilmente l’età, era legato mani e piedi ai quattro pilastri del letto a cassone. Un orrido ricamo di ferite gli devastava il corpo. La donna, invece, morta anche lei, era bocconi oltre la pedana, vicino alla finestra. La poca luce di quella piovosa mattina di maggio illuminava a fatica il macabro orrore della scena. Un lezzo acre ammorbava la stanza”.

Sono molti i misteri che gravano sul Vaticano. E sono quasi tutti foschi, macchiati di sangue e impregnati di lussuria. Fra i secoli peggiori ci furono certamente il XV e il XVI, quelli in cui si affermarono nell’Occidente cristiano la potenza e lo splendore del papato grazie a pontefici come Giuliano della Rovere, salito al soglio col nome di Giulio II, papa guerriero e megalomane al quale, oltre alle troppe guerre, ai feroci intrighi e alle innumerevoli bassezze che hanno segnato il suo pontificato, si devono molti tesori d’arte che hanno fatto dell’Italia uno scrigno prezioso. A Giulio II  si deve anche l’aver portato a Roma un piccolo contingente di mercenari svizzeri per propria difesa personale che qualche anno più avanti rispetto alle vicende narrate in questo libro, sotto il pontificato di Clemente VII de’ Medici, diventeranno ufficialmente Corpo di Guardia pontificia per la fedeltà e il valore dimostrato nel proteggere la fuga del pontefice a Castel Sant’Angelo durante il Sacco di Roma a opera dei Lanzichenecchi.  
Proprio sulla fedeltà e sulla elvetica ostinazione di un leutnant delle guardie svizzere al servizio di sua santità Giulio II, Julius von Hertenstein, si basa buona parte del fascino di questo thriller storico che apre, con il pretesto di narrare una storia intrisa di sangue, uno spiraglio sulla segretezza quasi impenetrabile di uno dei più piccoli ma, in proporzione, più efficienti corpi d’armata del mondo. Soprattutto, uno dei più misteriosi.
La vicenda, ambientata nel 1506, prende il via dal brutale assassinio di un principe della chiesa, il vescovo Giovanni Burcardo  orribilmente straziato nella propria camera da letto insieme con la sua amante, la bellissima Lavinia Sabina. A indagare è appunto il fedelissimo capitano degli svizzeri Julius von Hertenstein, della cui fedeltà il diffidente pontefice si fidava al punto da averlo soprannominato ‘la nostra sentinella’. Naturalmente a quell’omicidio ne seguono altri e l’aitante leutnant, che si muove abilmente fra i sacri palazzi e le italiche corti, in mezzo ai personaggi più in vista del Rinascimento: dal banchiere senese Agostino Chigi a Michele Corella il tagliagole dei Borgia, da Machiavelli alla bellissima Imperia, la cortigiana da cui viene sedotto, alla fine riesce a intravedere i contorni del complotto per uccidere la figlia del papa, Felice della Rovere, che stava per andare sposa al principe Gian Giordano Orsini.

Un romanzo in bilico fra il classico Cappa e spada e il saggio storico che avvince non solo per la trama, ma anche per la convincente ricostruzione di un’epoca e di un ambiente tanto affascinanti quanto realmente sconosciuti.

Patrizia Debike van der Noot

LA SENTINELLA DEL PAPA

Todaro, pagine 251, 13,60 euro anziché 16,00 su internetbookshop

Incipit: “La mattina di un fine settimana ero, come spesso mi capita, al supermercato a fare la spesa. Spingendo pigramente il carrello tra i corridoi alla ricerca dei prodotti segnati sulla mia lista, ho avuto d’un tratto l’impressione di trovarmi in un grande museo con decine o forse centinaia di migliaia di “pezzi” esposti. Anzi, una moltitudine di musei: dell’alimentazione
umana, dell’industria alimentare, dei prodotti dell’agricoltura, ma anche delle scienze applicate alla gastronomia, della chimica degli alimenti, delle tecniche del marketing, dell’estetica e della psicologia del packaging. E molti altri ancora”.

Uno dei grandi misteri italiani è costituito dalle etichette applicate sul retro delle confezioni degli alimenti. Per legge sono obbligatorie ma raramente sono leggibili da tutti. Se, prima di mettere gli acquisti nel carrello ci soffermassimo a controllarle una per una, magari con l’aiuto di una lente di ingrandimento, ci accorgeremmo di quanto le promesse della pubblicità siano ingannevoli. Per esempio: la mortadella riporta in grande sull’etichetta anteriore: ‘zero chimica’ ma poi, girando la busta, sull’etichetta posteriore, quella sincera per legge, scopriamo che contiene sostanze che arrivano direttamente dal laboratorio: conservanti, coloranti, nitriti, glutammato di potassio eccetera.
L’idea di scrivere questo libro, a Dario Bressanini, ricercatore scientifico presso il dipartimento di scienze chimiche e ambientali dell’università dell’Insubria, è venuta un sabato mattina facendo la spesa al supermercato. Confrontando le etichette con le promesse della pubblicità si è domandato, lui, esperto in chimica dell’alimentazione, cosa, in realtà mettiamo in tavola.
La pubblicità, si sa, è sempre martellante e spesso aggressiva. Ma basterebbe un po’ di attenzione per fare una spesa più consapevole salvaguardando salute e portafogli. Perché non è vero che i prodotti più pubblicizzati e più cari sono sempre i migliori. I più sani. Per esempio: il tonno che ‘che si taglia con un grissino’ in realtà è composto da briciole ricompattate ed è più grasso perché assorbe più olio, mentre quello migliore è in tranci e viene venduto di solito in vasetti di vetro che permettono di verificare la reale compattezza delle carni.  
«Mai fermarsi all’etichetta anteriore, quella con “la griffe” del produttore», raccomanda l’autore. «Per spendere bene l’ideale è prendersi tutto il tempo che ci vuole per controllare le etichette piccole. Allora si noterà, per esempio, che molti prodotti di marca iperpubblicizzati sono disponibili anche in confezioni col marchio del supermercato a prezzi molto più economici. Questo, fa parte di una politica di marketing adottata dai produttori per ampliare il più possibile la rete dei consumatori. »
E che dire della chimica spacciata come ‘benefica’, addirittura ‘indispensabile all’organismo’? Stando alle etichette, certi prodotti sembrano uscire più da una farmacia che dal supermercato, perché la pubblicità li indica come toccasana per il contenuto di sostanze come, per esempio, gli Omega3: ‘i grassi che fanno bene alle arterie’; per l’aggiunta di vitamine e antiossidanti, fra cui il selenio che viene immesso perfino nel latte e nelle patate.
Ma è proprio vero che aggiunte fanno bene? E in che quantità vanno assunte perché ci si possa aspettare qualche beneficio? «E’ questo che dovrebbero domandarsi i consumatori » dice Bressanini che non risparmia neanche il grande business del ‘biologico’. «Basta il magico prefisso ‘bio’ sulle etichette per far vendere di più e a un prezzo più alto tutto quello che proviene, direttamente e indirettamente, dall’agricoltura e dalla zootecnia, come le uova, la frutta, la pasta», osserva. Ma secondo lui: «E’ un inganno perché, per esempio, le uova bio, provenienti da galline ‘allevate a terra, non sempre sono salutari sul piano della salute perché il terreno su cui sorge l’allevamento può essere inquinato da rifiuti o sostanze chimiche.
La fantasia dei produttori non ha limite, spiega Bressanini. Chi crede, per esempio, alla leggenda fatta circolare da un furbo produttore del Montana (USA), secondo la quale il Kamut sarebbe un tipo di grano arrivato a noi dai faraoni d’Egitto grazie a un aviatore della prima guerra mondiale che avrebbe portato con sé alcuni semi ritrovati in un a tomba, si bevuto una grossa panzana perché nessun seme è in grado di germogliare dopo quattromila anni e il nome Kamut, che sa tanto di egizio, è in realtà il marchio registrato di una multinazionale. Dunque, mettere in tavola alimenti a base di Kamut non significa “mangiare naturale”, ma semplicemente arricchire i produttori.

Dario Bressanini

LE BUGIE NEL CARRELLO. Le leggende e i trucchi del marketing sul cibo che compriamo

Chiarelettere, pagine 192, 10,71 euro anziché 12,60 su internetbookshop

Incipit: “Niente è come sembra. La lattina di birra rotola veloce lungo la strada scoscesa. Il suo fragore fa voltare le vecchie sulle seggiole, davanti agli usci delle case. Sono l'anima del paese queste donne dai volti scavati, tutte uguali nei loro fazzoletti neri, nelle vesti lunghe fino ai piedi, affacciate sul mondo come lo guardassero dal ponte di una nave, come se non fossero mare anche loro. Quegli occhi scuri hanno visto tutto, ma di fronte a una domanda si voltano altrove, e se lo trovi strano vuol dire che sei un forestiero, la gente del posto sa bene come vanno le cose sotto la barba dell'Aspromonte.
I due bambini rincorrono l'improvvisato pallone sino a perdere il fiato, gli sguardi ebbri di vita che spera. La lattina arranca, ha incontrato una pendenza, poi un piede la blocca. La figura possente nasconde il cielo, è l'apparizione di un Dio.
Nino non ha bisogno di alzare gli occhi: riconosce l'uomo dalle scarpe, che pulisce ogni sera prima di caricarsi.
«Papà!»
La figura si china e gli parla sottovoce, con un tono di lama affilato.«Quante volte ti dissi di non giocare coi figli degli sbirri?».
Il bambino vorrebbe piangere, invece si gira verso l'amico con un'aria corrucciata.
«Rocco, devo andare a casa».
L'altro, fermo a venti passi, accenna un saluto. Forse ha capito e forse no. Non sa ancora tante cose, alla vita bisogna dare tempo di insegnare”.

Undercover è il romanzo (ma non troppo) vincitore, il 12 ottobre scorso, del Premio Azzeccagarbugli 2013 e già questo riconoscimento lo qualifica perché il concorso, che da nove anni premia i cinque migliori romanzi polizieschi fra i quali la giuria popolare elegge un vincitore assoluto, è molto serio e scevro da accordi, trucchi e pastette.
Il genere a cui appartiene di diritto Undercover è quello che gli anglosassoni definiscono ‘non fiction novel’, che comprende quei romanzi che fanno da anello di congiunzione fra la realtà storica e l’invenzione letteraria.
Che questo libro sia solo in parte frutto di immaginazione lo garantisce il suo autore, Roberto Riccardi, colonnello dell’Arma e direttore della rivista Il Carabiniere. Riccardi, fra i vari incarichi importanti, ha operato in Sicilia e Calabria, proprio sull’Aspromonte andranghetista che descrive tanto bene nel romanzo. Inoltre ha comandato la Sezione antidroga del Nucleo investigativo di Roma, svolgendo indagini in campo internazionale. Non sapremo mai se anche lui è stato un Undercover, cioè un infiltrato, ma i dettagli che rivela sulla scuola di formazione degli aspiranti ‘infiltrati’ e quelli sulle coltivazioni di Coca, sui i trafficanti e i cocaleros parlano di esperienze vissute personalmente.  

Ecco la trama: Rocco Liguori e Nino Calabrò crescono insieme in un paesino dell’Aspromonte in cui la presenza della ‘ndrangheta si tocca e si respira. Sono grandi amici ma non potrebbero essere più diversi perché Rocco è figlio di uno sbirro mentre Nino appartiene a una famiglia mafiosa. I due ragazzi crescendo prendono strade opposte ma non potranno sfuggire al destino che, facendoli incontrare, li porrà di fronte a scelte tragiche.

Roberto Riccardi

UNDERCOVER. Niente è come sembra

E/O collana sabot/age, pagine 224, 13,60 euro anziché 16,00 su internetbookshop

Incipit: dalla prefazione di Franco Giustolisi: “Questo libro parla di stragi nazifasciste, degli anni Settanta con terrorismo rosso e nero, di mafia. Retaggi pesantissimi i cui fantasmi, ma non si tratta solo di fantasmi, ci portiamo dietro ben più che da una vita. Ne uscirà un quadro, io credo, veritiero e crudele, verità e crudezza date dai fatti. E ci si domanda, se cerchiamo di uscire dal  pettegolezzo, dal chiacchiericcio: in che paese viviamo?”.
Introduzione: “Una sera, al termine di uno dei miei spettacoli, un giornalista mi ha rivolto questa domanda: «Cosa vuol dire teatro narrativo civile?» Ci ho pensato e gli ho risposto attraverso una storia. Accadeva molti anni fa dalle mie parti, sull’appennino tosco-emiliano, non lontano da Monte Sole e Marzabotto, di sera. La tavola era imbandita, la nonna era in cucina e preparava la crescentina fritta, i bambini correvano e gridavano, gli uomini giocavano a carte, il camino era acceso e si sentiva un forte odore di legna bruciata”.

Alla morte di Erich Priebke, come sempre succede in questo paese mai unito su nulla, si sono scatenate le polemiche per le esequie e la sepoltura. Vietate in tutte le chiese di Roma, vietate in Vaticano, sarebbero invece auspicate da falsi buonisti pieni di nostalgie inconfessabili e da nazifascisti di ritorno. Proprio per questo è utile riportare alla luce questo libro pubblicato con lungimirante avvedutezza nel 2007 dall’editore Chiarelettere e da anni trasposto in spettacolo teatrale dall’autore Daniele Biacchessi che gira l’Italia con il suo teatro narrativo civile al solo scopo di rinfrescare la memoria agli italiani: alle nuove generazioni che ignorano cosa furono e quanto dolore abbiano portato al nostro Paese il nazifascismo e la destra eversiva e alle vecchie generazioni che  hanno fatto della rimozione e della mistificazione un’arte molto raffinata.
Anzitutto stabiliamo una cosa: perché è utile segnalare questo saggio proprio oggi, dopo la morte di Priebke, il capitano delle SS che si è spento nella sua casa romana senza l’ombra di rimorso e di pentimento, all’età di cento anni?
Bisogna sapere che nel maggio 1994, nella sede della Procura Generale Militare, alcuni operai impegnati in ristrutturazioni dell’edificio scoprirono un armadio. Aveva le ante rivolte verso il muro, chiuse a chiave e protette da un cancello chiuso con un robusto lucchetto. L’armadio fu aperto e vennero alla luce seicentonovantanove fascicoli più un registro con l’elenco di tutti gli atti contenuti nei fascicoli e la registrazione dei crimini commessi dai nazisti e dai fascisti italiani nel corso della seconda guerra mondiale: atti, ricordi, testimonianze dei sopravvissuti alle stragi, nomi e numeri dei trucidati, nomi degli assassini eccetera. Da quel momento l’Italia ebbe il suo ‘armadio della vergogna’. O, più esattamente, uno degli armadi della vergogna perché negli anni ne sono stati scoperti tanti altri sparsi fra le procure d’Italia e gli archivi segreti del Viminale.
L’armadio di cui si parla nel libro di Biacchessi contiene il fascicolo intestato all’eccidio delle Fosse Ardeatine commesso dai tedeschi in fuga il 4 giugno 1944, che ebbe come zelanti esecutori i capitani delle SS Erich Priebke e Carl Hass agli ordini dell’obersturmbannführer  Herbert Kappler, due nazisti che vollero andare oltre il comando ricevuto massacrando cinque cittadini romani in più rispetto al numero comandato.
Voci e testimonianze dei sopravvissuti all’eccidio, riportate in queste pagine, danno i brividi ancora oggi, aggiungendosi al coro tragico delle vittime di tutte le stragi dal dopoguerra fino a quelle recentissime, di matrice solo apparentemente diversa. Non bisogna infatti dimenticare che non c’è antidoto che preservi l’umanità dalle pandemie di ferocia e quello che avvenne settant’anni fa potrebbe ancora ripetersi.

Daniele Biacchessi

IL PAESE DELLA VERGOGNA

Chiarelettere, pagine 125, 8,08 euro anziché 9,50 su internetbookshop