Adele Marini

La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.

Incipit:  Dalla prefazione di Carlo Alberto Romano, presidente di Carcere e Territorio Onlus: Nella narrazione di Carmelo Gallico la parte sbagliata del mondo prende il nome di Malamorti e più che un luogo è l’emblematica rappre­sentazione di una Calabria di ‘ndrangheta e faide dove chi non muore ammazzato muore in galera.
Carmelo, in quella parte sbagliata di mondo, ci è nato e cresciuto; già da bambino impara cosa sia il carcere, andando a trovare il padre detenuto.
La morte si presenta quando aveva 15 anni, quando gli uccidono il fratello ventenne. E poi quando, una notte, tentano di sterminare la sua famiglia ed egli rimane sepolto sotto le macerie della casa, distrutta.
Costretto a lasciare il liceo, gli amici e la normalità esistenziale che tanti suoi coetanei posseggono, spesso senza rendersene conto, ne senti­rà la mancanza, cercandola a lungo, anche tuttora.
1234…15. Il cielo che non c’è. Un’ora di luce, una soltanto nell’arco dell’in­tera giornata. Una soltanto in ogni giorno di ogni anno di tanti anni.
Quattro per cominciare, che poi diventeranno sei, otto, dieci e chissà fino a quando durano.
Sempre e soltanto un’ora di luce al giorno. La luce che dall’alto filtra dentro una scatola di cemento coperta da due reti di metallo sovrappo­ste per farsi più fitte. E così, se guardi verso il cielo, stiletti di luce trafiggono i tuoi oc­chi e frustate di pece li rendono ciechi in un convulso alternarsi: la luce del cielo, l’ombra del ferro. Cielo, ferro. Luce, buio. Allora se cammini non guardi in alto e se ti fermi eviti ugualmente di guardarci: un cielo di ruggine è un cielo che piange dolore, è un cielo che non c’è perché il cielo per te finisce lì, su quella rete di metallo, dove comincia la tua disperazione.

Carmelo Gallico è un detenuto condannato al 41bis, lo stesso articolo del codice di procedura penale applicato a Toto Riina, a Provenzano e all’intero gotha della criminalità organizzata. Benché sia stato piano piano ammorbidito, il 41bis prevede condizioni carcerarie molto dure per i condannati, al limite della violazione dei diritti umani.
Gallico è un mafioso di rispetto, almeno stando al cognome che porta che lo indica appartenente alla potente ‘ndrina di Palmi. Ma è un mafioso ‘suo malgrado’ come sicuramente tanti giovani come lui, nati già ‘battezzati’ per il solo fatto di appartenere a famiglie ‘d’onore’. Lui vorrebbe solo studiare, farsi una posizione ma il suo cammino verso un futuro di normalità si interrompe bruscamente a quindici anni, quando viene ammazzato suo fratello e bisogna vendicarlo.
Carmelo e il padre si trasferiscono in Romagna perché la Calabria per loro è morte certa, ma il richiamo della terra è forte e dopo qualche anno Carmelo decide di tornare. A partire da quando rimette piede a Palmi, inizia una spirale di terrore che culmina con il tentativo di sterminare la sua famiglia. Sono omicidi e vendette che per il giovane Gallico terminano solo con la condanna.
In cella però  ritrova se stesso e la propria voglia di normalità che esprime nell’unico modo che gli è concesso: scrivendo.
Dal carcere di Fossombrone sono uscite pagine bellissime, fra cui una recensione, scritta dieci anni fa, che ha fruttato a Carmelo il premio Bancarella riservato agli studenti. E una commedia teatrale messa in scena all’Eliseo di Roma.

Senza scampo. La mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta è stato scritto interamente nel penitenziario di Fossombrone. Un libro-confessione molto importante perché  rappresenta una Calabria di sangue rimasta cupa e feroce come la descriveva cinquant’anni fa Corrado Alvaro. Una Calabria che ruba la vita a chi ha la sventura di nascere nella famiglia sbagliata. 

Carmelo Gallico

SENZA SCAMPO. La mia vita rubata da faide e ‘Ndrangheta

Edizioni Anordest, 254 pagine, 12,66 euro anziché 14,90 su internetbookshop.

Incipit: Chi e stato a New York e ha preso la subway avrà sentito ripetere spesso dagli altoparlanti una frase-slogan che dice: «If you see something, say something» (Se vedi qualcosa, dillo). Poche parole, secche ma efficaci, che evocano in chi le ascolta concetti e scenari preoccupanti come terrorismo, allerta, incertezza, attentati e altri ancora. L’idea di questo libro è scaturita da uno stato d’animo simile. Dalla convinzione che in economia, in politica, nel sistema di gestione dei poteri “qualcosa” potrebbe minacciarci tutti. Questo qualcosa è il nuovo potere, la “nuova classe” di uomini al comando da cui dipendono i nostri destini. I "padroni del mondo”: sono loro che guidano i giochi nelle banche centrali e nei grandi istituti commerciali, gli innominati che qui chiamiamo “bankster”, neologismo in Italia tabù – nato dalla fusione di banker e gangster – ma comparso perfino su una copertina di “The Economist” nel luglio del 2012.
Personaggi senza volto, mai chiamati a rendere conto ad alcuno del loro operato, che ignorano la sofferenza delle popolazioni. Disprezzano le disparita culturali, psicologiche ed economiche delle nazioni d’Europa. Hanno  trasformato la Ue in una pseudodemocrazia dominata da “poteri forti” e l’Italia in un paese invivibile, senza futuro. Coperti dalle sigle della Troika (Ue, Fmi, Bce), e approfittando della crisi, i nuovi tecnocrati hanno spadroneggiato allocando agli istituti di credito 15 trilioni di dollari (15.000 miliardi): una cifra senza precedenti nella storia. Con la connivenza dei politici, hanno socializzato
le maxiperdite di banche destinate a fallire, e contemporaneamente salvato l’euro, tagliando con l’accetta welfare, pensioni, scuola ed elevando a livelli mai visti le tasse: un vero capolavoro. Sulla nostra pelle.

Un gruppo di gentiluomini composto da  poche migliaia di persone (ma che cosa conta il numero paragonato al numero dei destini che vengono governati?)  tiene saldamente in pugno le sorti del pianeta e decide chi vivrà benissimo, chi bene, chi fra gli stenti, chi morirà. Questo, semplicemente movimentando i mercati finanziari con speculazioni criminali e dettando agli Stati leggi finanziarie di assoluta disumanità. E’ forse in atto la vera “terza guerra mondiale”, giocata non più sul territorio ma nei saloni climatizzati delle Borse, in cui avvengono le contrattazioni mondiali? Chi sono quei personaggi e per conto di chi agiscono? Qual è il loro scopo ultimo? Impadronirsi delle risorse del pianeta spazzando via intere popolazioni per fare spazio a una generazione di “eletti”? A una “super razza” fondata non sui geni ma sulla consistenza patrimoniale?
L’autore, Luca Ciarrocca, è un giornalista che ha vissuto e lavorato molti anni a New York, dove nel 1999, ha fondato Wall Street Italia, sito indipendente di economia, finanza, politica e news. Dunque, di Finanza e finanzieri, banche, banchieri e bancarottieri se ne intende parecchio. In questo saggio affronta dal di dentro un argomento del quale, salvo rare eccezioni, pochi hanno voglia di discutere, a cominciare dai nostri politici che da anni parlano della crisi mondiale, di ripresa possibile, addirittura di crescita, attraverso  luoghi comuni, frasi fatte, promesse che non potranno essere mantenute ma che tranquillizzano tanto i cittadini chiamati al voto.
Come è cominciato questo mostruoso conflitto, o per meglio dire, come è arrivato alla fase finale, quella a un pelo dal baratro, lo spiega con parole semplici ed efficaci lo stesso Luca Ciarrocca.
«Metà settembre 2008. Il mondo è sul ciglio dell’abisso. Scoppia la grande crisi globale, la peggiore degli ultimi ottant’anni. Ne parliamo ancora perché l’apocalisse potrebbe ripetersi. Negli stessi identici termini. Un altro “cigno nero” come viene definito, secondo la teoria dell’epistemologo Nassim Nicholas Taleb, un avvenimento raro e imprevedibile che sconvolge l’ordine delle cose [potrebbe ancora profilarsi perché] Quasi nulla è cambiato rispetto a quei terribili giorni. Anzi, lo scenario è peggiorato.
«Mancò un soffio. Per l’esattezza tre ore. All’epoca nessuno aveva strumenti per capire, tutto si svolse in modo convulso, ma oggi sappiamo. Stati Uniti, Europa, i Bric (Brasile, Russia, India, Cina), l’intero blocco delle economie evolute, da Tokyo a Londra, da New York a Singapore, fu a centottanta minuti di orologio dall’implosione. Poi tutto sarebbe scoppiato, deflagrato, lasciando solo macerie e devastazione. Come in una catastrofica terza guerra mondiale.
«La grande crisi andava in scena sugli schermi di oltre 300.000 terminali Bloomberg nei cinque continenti. Gli sherpa al servizio dell’oligarchia che guida il mondo – multinazionali, banche, hedge fund, speculatori – stavano per cambiare il destino di miliardi di persone. I prezzi crollavano, il tremendo virus “tossico” di non liquidità e insolvibilità che aveva attaccato le banche mondiali stava per esplodere.
«Accadde il 18 settembre 2008 l’evento che solo poche altre volte nella storia economica ebbe un simile impatto: una eccezionale fuga di capitali dai depositi di banche americane (bank run) per un totale di 5,5 trilioni di dollari. Lehman Brothers era fallita quattro giorni prima, Wall Street aveva perso -30 per cento in poche settimane, e ora l’equivalente di un terzo del Prodotto interno lordo degli Stati Uniti stava evaporando dai depositi bancari. Niente code agli sportelli, tutto elettronico. Ancora tre ore a quel ritmo di fuga di capitali, come testimoniò in seguito un deputato al Congresso, «e il capitalismo come lo conosciamo sarebbe finito».
«Fu un ex banchiere di Goldman Sachs a generare il mostro che tuttora spadroneggia e ci ricatta. Sotto la spinta dell’emergenza, a tre ore dell’ineluttabile implosione del sistema, John Paulson, la massima autorità politica e monetaria degli Stati Uniti, sotto la regia della Federal Reserve, con un atto senza precedenti decise di salvare il capitalismo americano e mondiale correndo in soccorso a un super network di banche che avrebbero dovuto quasi tutte portare i libri in tribunale ».
Il piano di Paulson era semplice. La crisi americana era scoppiata verso la fine del 2007 a causa dell'esplosione della bolla speculativa dei subprime che per favorire gli edili e gli speculatori aveva fatto sì che si concedessero case a tutti e carte di credito. Montagne di debiti non pagabili: un vecchio trucco per per fare soldi sui numeri, contrattando in borsa beni inesistenti.
La crisi aveva rapidamente contagiato l'intero sistema bancario americano tramite acquisti e speculazioni su titoli tossici ad alto rendimento. In risposta, Paulson patrocinò assieme al capo della Federal Reserve, Ben Bernanke, un piano di salvataggio del sistema finanziario americano  senza precedenti, che il 3 ottobre venne approvato dal Congresso.
Da quella brutta esperienza sono nate le ≪Tbtf≫ (Too Big To Fail): le banche ‘Troppo grandi per fallire’, Colossi che continuano a fare danni, diretti e collaterali, di cui tutti paghiamo le conseguenze”.
Si sarebbe potuto azzerare e ripartire, spiega Ciarrocca.  Invece Tbtf è oggi il vero strumento grazie al quale i “bankster“ (i banchieri-gangster) prosperano e si arricchiscono impuniti, mentre la gente comune soffre e muore.

Luca Ciarrocca

I PADRONI DEL MONDO. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni

Chiarelettere, 242 pagine, 11,82 euro anziché 13,90 su Interetbookshop

Incipit: 1996. Il quadrante luminoso del videoregistratore indica le tre e ventidue. Accendo una candela e la pongo ritta su un piattino da caffè. Sempre lo stesso sogno.
Sono vestito in jeans e maglietta di cotone blu. Ho in testa un cilindro nero di cartone lucido e sto uscendo da dietro un siparietto di stoffa sostenuto ai lati da due ragazze, anche loro in jeans e maglietta di cotone blu. La mia bocca è atteggiata a una risata feroce, ma non si sente alcun rumore. Solo il battito delle palpebre genera un lieve fruscio, simile a quello delle ali di una farfalla notturna.  
Sto seduto sul tappeto, le gambe irrigidite nella posizione del loto. Con una mano mi porto la sigaretta alla bocca, con l'altra scartabello vecchie fotografie disordinate.
Adesso invece sono senza cilindro, stringo un manganello, lo picchio ritmicamente contro il palmo della mano sinistra, un sorriso carico di sarcasmo, come il tizio vicino a me, entrambi con la barba. Ci guardiamo, ammicchiamo a un uomo che scappa, abiti d’alta sartoria, illuminato a tratti da una luce stroboscopica.

La scelta di Lazzaro Mainardi, minuscolo editore milanese che pubblica solo libri che hanno per argomento l’ambiente, è quella di tornare a fare la lotta armata sotto un’altra bandiera.
Lazzaro è stato un combattente degli Anni di Piombo. Non si è mai pentito e ha scontato per intero la sua pena. Uscito dal carcere, in una metropoli resa una polveriera dalla crisi economica e dai conflitti sociali, vorrebbe solo farsi dimenticare nella sua placida quotidianità con la moglie libanese Samar. Ma combattente una volta, combattente per sempre. Il passato non si lascia dimenticare  torna a cercarlo nei panni di un vecchio compagno di militanza tornato dal Brasile per convincerlo a partecipare a un’altra guerra, questa volta al fianco dei fondamentalisti islamici.
Sotto le mentite spoglie del romanzo, l’autore ricorda verità scomode delle  quali chi ha più di quarant’anni ha perso la memoria. Verità che, viste alla luce dei tempi della storia, sono recentissime ma sulle quali si è fatta una tale opera di rimozione, soprattutto negli ultimi due decenni vissuti all’insegna del revisionismo, che sono state strappate come pagine di un libro dalla memoria collettiva a tal punto che i giovani le ignorano del tutto, così come ignorano che nel nostro Paese si è combattuta una guerra; che altrove si sono combattute guerre; che un’intera generazione è stata manipolata allo scopo di creare instabilità e paura perché alla fine si instaurasse l’invocata ‘stabilità’ sfociata nel liberismo selvaggio. Liberismo voluto affinché il divario fra ricchi e poveri si allargasse al punto da attuare lo spostamento delle risorse verso una sola direzione: quella dei mercati finanziari e degli arricchimenti facili.
Ambientato nel trentennio che va dal 1982 al 1992, il romanzo racconta quegli anni turbolenti così come li ha vissuti il protagonista: lotta armata in Italia, fuga in Libano, massacri  nei campi profughi libanesi di Sabra e Shatila.
E qui,  entra in campo un pizzico di attualità con la morte di Ariel Sharon, ex primo ministro israeliano, sul passato del quale quei massacri hanno sempre pesato come ‘piombo fuso’ (e le parole non sono scelte a caso, anche se l’operazione Piombo Fuso prenderà il via molti anni dopo, cioè il 27 dicembre 2008).
Tanto per ricordare brevemente cosa accadde: nel 1982 gli israeliani costrinsero l'Olp di Yasser Arafat a ritirarsi da Beirut. Una volta usciti i Palestinesi, Sharon, allora ministro degli esteri dello Stato di Israele, in aperta violazione dei patti bilaterali e con il sostegno delle forze multinazionali guidate dagli americani di Ronald Reagan, fece circondare i campi profughi di Sabra e Shatila lasciando mano libera ai falangisti cristiani libanesi, storici alleati di Israele, che massacrarono centinaia di persone, soprattutto donne, vecchi e bambini.
Quella strage oltre a suscitare orrore nella comunità internazionale minò per sempre gli accordi di pace fra Israele e i palestinesi.
Il romanzo è anche la parabola del protagonista Lazzaro, e dei molti ex terroristi ed ex brigatisti che, come lui, hanno vissuto la lotta armata, la sua preparazione nei campi di addestramento in Libia, in Libano e ovunque ci fosse interesse a destabilizzare l’Italia.

Alesaandro Bastasi

LA SCELTA DI LAZZARO

Edizione digitale Memenoir, 166 pagine, 4,49 euro. Disponibile, per il momento, solo in formato eBook in tutte le librerie digitali.

Incipit: Capitolo uno. Il “Datagate”, il Puzzle Palace e lo spionaggio senza frontiere (2013). All’inizio di marzo del 2006, nella Situation Room della Casa Bianca, ebbe luogo una riunione alla quale parteciparono il presidente George
W. Bush, il vicepresidente Dick Cheney, il consigliere per la Sicurezza Nazionale Stephen Hadley, il segretario di Stato Condoleezza Rice, il direttore della National Intelligence John Negroponte, il direttore della CIA Porter Goss, il direttore della National Geospatial-Intelligence Agency (NGA) James R. Clapper e il direttore della National Security Agency (NSA), il generale Keith Alexander.
L’incontro era stato convocato dal presidente per dare il via libera al progetto della NSA di intercettare e spiare le comunicazioni di diversi leader politici stranieri. Il generale Alexander, quando era a capo dello United States Cyber Command (USCybercom), aveva gia ideato un programma simile. Nel marzo del 2006, pero, la NSA offriva al presidente Bush opportunità di ascoltare le comunicazioni private dei capi di governo alleati. Il primo test di quello che oggi chiamiamo “Datagate” fu eseguito a Roma nel maggio di quello stesso anno. George Bush aveva autorizzato Alexander, e quindi la NSA, a intercettare le comunicazioni del presidente venezuelano Hugo Chavez in
occasione della sua seconda visita ufficiale in Italia, avvenuta in un periodo in cui le relazioni tra Caracas e Washington erano particolarmente tese. Qualche anno prima, gli Stati Uniti avevano appoggiato il golpe, poi fallito, contro il presidente del Venezuela e, guarda caso, uno degli agenti segreti americani coinvolti nel complotto nel 2006 era in missione proprio presso la stazione CIA di Roma, diretta da Robert E. Gorelick.

Lo scandalo Datagate, quello che costringe a vivere da semi recluso a Mosca  Edward Snowden, il giovane tecnico informatico americano che ha fatto sapere al mondo cosa ha fatto e sicuramente cosa continua a fare fa il suo Paese agli altri Stati sovrani, alleati e non, con la scusa di combattere il terrorismo, non riguarda violazioni delle sovranità compiute da una nazione sotto stress dopo l’11 settembre.
Le rivelazioni di Snowden riguardanti il sistema di spionaggio messo in atto dagli USA ai danni degli altri Paesi, soprattutto quelli europei, soprattutto l’Italia, facendo luce sugli apparati e sui complessi sistemi di intercettazioni dimostrano come il Grande Fratello profetizzato da Orwell in realtà fosse soltanto uno zotico cugino di campagna. Infatti, fino a oggi non c’è stata difesa alcuna contro i sistemi di spionaggio messi in campo della NSA, l’agenzia americana supersegreta per la sicurezza, e applicati a tutti i sistemi di comunicazione globale e nazionale possibili, dalle e-mail agli sms, dalle chiamate su cellulare alle comunicazioni tramite telefoni fissi, fino alle conversazioni private e agli spostamenti fisici delle persone, spiate tramite microspie  e via satellite. E l’Italia, meno di altre nazioni fra cui la Germania, al di là delle parole rassicuranti del premier, è riuscita, o ha anche solo tentato, di sottrarsi al "grande orecchio" messo all’ascolto oltre Atlantico.
Il Grande Ascolto, non è storia recente.
Il nostro Paese per la sua posizione nel Mediterraneo, sia per il fatto che geograficamente, al tempo della guerra fredda, sia stato  la cerniera fra l’Occidente e la galassia comunista, sia per la presenza del maggior partito comunista europeo, è sempre stato ‘attenzionato’ dagli Usa. Nel corso dei decenni sono cambiati i metodi e si sono fatte sempre più sofisticate e mirate le tecnologie, ma sul suolo italiano non si è mai mossa foglia che i nostri alleati d’oltreoceano non sapessero e non volessero.

Questo libro-inchiesta, basato su centinaia di rapporti segreti, la maggior parte dei quali inediti: dai vecchi e mal ridotti dattiloscritti fino ai più recenti report e cablogrammi che già dal primo dopoguerra gli 007 nostri ‘liberatori’ commentavano e analizzavano minuziosamente, rivela come fin dalla fine del conflitto tutti gli aspetti della vita politica, economica e sociale del nostro Paese fossero spiati, analizzati, valutati. Lo scopo di questo mostruoso spionaggio manipolatorio è sempre stato quello di pilotare l’opinione pubblica e gli orientamenti politici dei governi che si sono succeduti dalla prima repubblica in poi, nella direzione più favorevole agli interessi politici ed economici degli Stati Uniti. E, naturalmente, la controparte di oltrecortina non è mai stata da meno. Ma questa è un’altra storia.

Eric Fratini (con la collaborazione di Valeria Moroni)

ITALIA SORVEGLIATA SPECIALE. I servizi segreti americani e l'Italia (1943-2013): una relazione difficile raccontata attraverso centocinquanta documenti inediti

Ponte alle Grazie, 450 pagine, 19,55 euro anziché 23 su internetbookshop.

Incipit: Da qualche parte nella Pianura Padana, primavera 1919. Prurito forte, irritante. Roba da levarsi la pelle a furia di grattare. Le piaghe erano aumentate in pochi giorni e il formicolio stava diventando insopportabile.
Cosa diavolo gli stava succedendo?
Le ferite non si rimarginavano, le croste non facevano in tempo a seccare. I graffi si sovrapponevano alle pustole.
Prurito forte, insopportabile.
Sirio si guardò le unghie, minuscole tracce di sangue e sottili brandelli di pelle si intravedevano nel contorno nero di terra. Le sue erano unghie da contadino, erano mani da contadino ricoperte, però, da sconosciute macchie purulente. Tuttavia quel semplice pizzicore non poteva certo fermare il lavoro nei campi, le stagioni non aspettano, la terra non aspetta.
La sua giornata era cominciata prestissimo, come al solito ma già, mentre si lavava la faccia nel catino, si era reso conto di quanto il suo disturbo fosse peggiorato. Durante la notte si era rigirato più volte nel letto, cercando di fare meno rumore possibile, grattandosi silenziosamente. Al canto del gallo, si era alzato sperando in un sollievo, il movimento, il lavoro nella stalla, nei campi
l’avrebbero distratto e affievolito il prurito. Invece no, invece era aumentato con il passare delle ore.
Prurito forte, preoccupante. Piaghe.
Sirio si appoggiò al gelso, si tolse il cappello e si fece aria. Non
faceva caldo, era solo aprile, ma lui stava sudando.

C’è un fiume che scorre sotto Milano che solo le carte geografiche riescono ancora a chiamare fiume. Fra gli argini a cielo aperto di buona parte dei suoi settantun chilometri di lunghezza dalla sorgente, nel varesino, alla foce nel fiume Seveso, scorrono liquami chimici, roba che avvelena solo a sentirne l’odore. Eppure nei paesi lambiti da questa specie di Stige c’è chi pesca misere alborelle mitridatizzate e poi se le cucina alla sera. Questo è assolutamente vero e fin qui l’autore di questo delizioso eco-noir non ha inventato nulla. Si è limitato a guardarsi attorno senza aspettare il giorno dopo per scoprire se i gourmet di alborelle fritte sono sopravvissuti al loro pasto.
Dalla fantasia di Fabrizio Canciani, musicista e magnifico chansonnier oltre che scrittore, sono scaturiti Bruno Kernel stralunato personaggio più vicino ad Alberto Savinio che a Simenon, e la bella Paola, comandante di polizia Municipale (era ora che dopo tanti commissari magistrati e carabinieri che indagano nei noir anche i vigili urbani si dessero da fare!). E naturalmente è scaturita anche l’immancabile indagine ‘non autorizzata’ quando il fiume Olona porta in dono un cadavere allo scalcinato pescatore di alborelle.
Sì, l’indagine, anche se non autorizzata, c’è fra gli ingredienti che compongono il romanzo, ma una volta tanto non sono  le gesta dei due investigatori a tenere i lettori col fiato sospeso. Almeno, non soltanto. In realtà a farla da padrone è il fiume Olona, sono le sue acque, oggi giudicate ‘pessime’ dall’ARPA, che  risucchiano la storia riportandola indietro nel tempo. Precisamente all’anno 1919, quando nella zona scoppiò un’epidemia di carbonchio che ammazzò più uomini e animali della guerra al fronte.
Il vero protagonista di questo noir che sa tanto di acqua cattiva e di buona letteratura è l’Olona, la sua storia, le ballate contadine e le cupe leggende che scendono a valle correndo sopra i vapori delle sue mefitiche acque per spaventare i cittadini perbene ma non gli inquinatori.

Un  bellissimo romanzo che per il titolo prende a prestito un verso molto suggestivo di Fabrizio de André, nel quale gli odori, i sapori, la musica che scandisce le pagine, e i rumori vengono percepiti così chiaramente che feriscono i sensi e rendono indimenticabile ogni pagina. 

Fabrizio Canciani

ACQUA CHE PORTA VIA

Todaro, 240 pagine, 13,60 euro anziché 16 su internetbookshop.

Incipit: Questo libro, più che una storia completa ed esaustiva dell’idea di coscienza, è un intreccio di storie nelle quali compare quell’idea. Incomincia con una vicenda americana, nella quale i membri di una setta relativamente tardiva del protestantesimo si rifiutano di imbracciare le armi e finisce con il rifiuto di una parte di medici di offrire alle donne l’assistenza che esse richiedono. La coscienza viene invocata in due situazioni molto diverse e per giustificare comportamenti opposti: gli obiettori quaccheri si rifiutavano di imporsi con violenza e rivendicavano il diritto negativo di sottrarsi all’obbligo di prevalere sugli altri, mentre i medici obiettori pretendono di impedire il riconoscimento di diritti sanciti dalla legge, imponendo alle donne che invocano quei diritti, quello che essi ritengono giusto. Tra questi due estremi si collocano le storie della coscienza che intendo narrare.

I principi della bioetica dividono la politica. E la politica pretende di governare le coscienze che, su quei principi, fondano se stesse e il proprio sentire. Sempre a caccia di ciò che è giusto e ciò che non lo è, sempre in lotta fra il bene e il male secondo punti di vista contingenti al momento storico e, spesso alle convenienze private e di parte, i partiti, i loro leader e le autorità religiose (di tutte le religioni) che pretendono di formare e di guidare le coscienze si macchiano spesso di grandi nefandezze, commettono errori di proporzioni storiche, scatenano guerre e, nei periodi più tranquilli, varano leggi profondamente ingiuste o di parte e diffondono idee che manipolano pesantemente il sentire collettivo.
Ma esiste un’entità superiore che si chiama coscienza fondata su principi davvero unici e universali?  
Pietro Lombardo, richiamandosi a Girolamo, scriveva che esiste "una scintilla superiore della ragione, che neppure in Caino poté estinguersi, che vuole sempre il bene e odia sempre il male".
La scintilla della coscienza sarebbe dunque il giudice interiore delle nostre azioni. Quel giudice cioè che dice, nel profondo di ciascuno, cosa è buono, cosa è accettabile e cosa è riprovevole. Per esempio, la tolleranza, la carità, la pietà a tutte le latitudini e in tutte le epoche sono e sono state pulsioni ‘buone’. Il delitto, al contrario, ha suscitato orrore ed esecrazione fin dall’alba dell’umanità. Nei secoli, tuttavia, e in base a certe contingenze, il concetto stesso di coscienza ha subito metamorfosi che ne hanno cambiato sensibilmente il significato.
L’autore, Carlo Augusto Vian, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, intreccia in questo libro molte storie che hanno come epicentro, in contesti, tempi e luoghi differenti, la coscienza e gli usi pubblici di questo concetto ambiguo e duttile, sempre parziale.
In questo libro comincia a narrare dell’obiezione di coscienza dei quaccheri americani e finisce con la mancata applicazione della legge 184, quella che sancisce il diritto all’aborto per le donne, rimasta inapplicata da 35 anni per colpa delle pressioni sui medici i quali, dichiarandosi ‘obiettori’, in nome della coscienza possono tranquillamente negare alle donne un diritto che è stato loro riconosciuto per legge.
Sono le due facce della stessa medaglia. Da un lato gli obiettori pacifisti che rivendicavano il diritto di sottrarsi all'obbligo di prevalere sugli altri (e quindi rifiutano di correre in difesa della nazione all’occorrenza) dall’altra i medici obiettori che pretendono di imporre alle donne ciò che a loro, in coscienza, sembra giusto.
Ma l’obiezione di coscienza nelle due accezioni opposte ed estreme non è il solo caso in cui La coscienza è entrata nel dibattito pubblico accendendo fuochi pericolosi. L'obiezione "di coscienza" esercitata contro le armi e contro le pratiche mediche non è nuova e non riguarda solo l’aborto e il pacifismo. Spesso ha travalicato e continua a travalicare il campo dell’etica per finire in politica disorientando i cittadini, i quali di volta in volta si domandano se davvero esista una scintilla superiore della ragione.
In questo libro, che ripercorre il cammino del concetto di coscienza nel sentire comune, vengono evidenziati i molti paradossi impliciti in questa parola abusata.

Carlo Augusto Viano

LA SCINTILLA DI CAINO. Storia della coscienza e dei suoi usi

Bollati Boringhieri, 327 pagine, 25,50 euro anziché 30 su

Incipit: Marzo. Cappotto, pantaloni, una camicetta gialla e il maglione blu. In più ci sono le scarpe, le calze, gli indumenti intimi. Tutti insieme riempiono un bel borsone, di quelli grandi. Lei è arrivata sveglia, cosciente. Una come lei, con la sua corporatura e per la sua età non ha più di cinque litri di sangue in circolo. Quella sera è arrivata che ne aveva due litri e mezzo. Dalle ore ventitré alle due di notte. Per gli ultimi venti minuti le hanno preso il cuore in mano e lo hanno massaggiato. Era privo di sangue il cuore. Per venti minuti un cuore tra le mani. Quando è entrata l’hanno registrata con una data di nascita sbagliata, di un anno più grande. Le hanno scritto ventiquattro anni. Lei ne aveva ventitré, come l’ora di arrivo. Le ultime tre ore sulla terra, per l’ultima corsa. Io ho imparato molte cose da questa storia, di sicuro non avrei mai pensato di dover imparare a cucinare un piatto tipico di Bari. A volte la vita ti dà un’opportunità, sta a te coglierla. Io ci provo. Iniziamo, o, meglio ci proviamo.

Santa Scorese è la prima vittima di stalking e femminicidio riconosciuta dal governo italiano. Era una ragazza bella, mite, studiosa e molto religiosa. E’ morta, trafitta da 13 coltellate, una sera del marzo 1991, dopo tre anni di stalking, perché il suo persecutore, Giuseppe, un uomo di quarant’anni schizofrenico grave, che la madre rifiutava di dar curare, l’aveva vista e aveva deciso che dovesse essere sua. Il copione era quello di sempre: la seguiva dappertutto, le inviava lettere, le telefonava di continuo, cercava di abusare di lei e, non riuscendoci, minacciava di ‘farla secca’. L’aspetto più inquietante è che sicuramente qualcuno lo aiutava perché riusciva sempre a scovare la povera ragazza che, per sfuggirgli, si spostava di continuo chiedendo asilo negli istituti religiosi della sua congregazione, quella dei ‘Focolarini’, che è piuttosto chiusa e tiene molto al riserbo e alla privacy.
Le minacce di Giuseppe non sono cadute nel vuoto nonostante il padre di Santa fosse un poliziotto, un sovrintendente capo in servizio presso la questura di Bari e si fosse attivato  in ogni modo, con l’aiuto dei colleghi, per arginare quella persecuzione.
“Tutti i fatti narrati in questo libro”, come recita l’epigrafe, “sono accaduti. Tutte le parole riportate sono vere [per la maggior parte prese dal diario intimo di Santa]. Tutti i nomi citati sono reali. Il 29 maggio 2013 il comune di Bari ha intitolato una via della città a Santa Scorese, vittima di femminicidio” un fatto rarissimo se non unico  in Italia”.
Nel 1991 la parola femminicidio non era ancora stata coniata e lo stalking non esisteva proprio, né come concetto né, tantomeno, come reato. Le donne morivano e i loro assassini, al Nord come al Sud,  spesso se ne andavano impuniti, protetti da quella tolleranza giudiziaria e sociale che in Italia rispecchiava una società che, più che in altri Paesi occidentali, è sempre stata e scuramente sarà maschilista nel profondo e quindi indulgente nei confronti dei  suoi figli maschi, anche nelle loro espressioni più violente e persino abiette.
Oggi si parla tanto di femminicidio anche da noi e lo stalking è punito dalla legge con pene di tutto rispetto, eppure le donne continuano a morire in numero ogni anno crescente. Perché? E perché è tanto difficile difendersi dai persecutori soprattutto quando fanno parte della stessa famiglia o della cerchia della vittima: padri, cugini, fratelli compagni, mariti ex mariti. E perché i genitori di ragazzi violenti che mostrano tutti i sintomi di un male dell’anima che in ogni momento può esplodere (come la madre di Giuseppe, l’uomo che ha assassinato Santa) sono sempre tanto restii a guardare il problema per quello che è e a correre ai ripari finché sono in tempo?

Sono domande che una società che vorrebbe dirsi civile, evoluta, ‘europea’ ogni tanto dovrebbe porsi.

Alfredo Traversa

SANTA CHE VOLEVA VIVERE

La Meridiana, 48 pagine, 8,50 euro anziché 10 su internetbookshop.

Incipit: L’eco dei tuoni rimbombava minacciosa fuori dalla porta d’ingresso del ristorante. La pioggia nera di quella notte siracusana si era fatta, per qualche ora, schermo d’acqua e aveva diviso il bene dal male, il mare aperto dalle acque stantie dello stagno.
L’aria era satura di polvere da sparo e l’odore ferroso del sangue si faceva largo fra i fumi brumosi dei revolver.
Il corpo della donna era ricoperto da una decina di foto non più grandi di un portafogli. Aveva gli occhi spalancati sul nulla e la carne del viso sbiadiva a ogni goccia di sangue che le colava dalla fronte. Le mani s’erano disperse sul freddo pavimento; non si sarebbero mai più ricongiunte.
La bocca era aperta e al di là dei denti, le labbra sembravano pronunciare la lettera “G”, lasciando che il resto del nome fosse ingoiato dal cadavere di un amore finito.
Accanto a lei, Antonio Gurciullo stava disteso privo di conoscenza, con i baffi umidi dallo spavento e il cuore stritolato in un pugno di dolore. La ferita d’arma da fuoco che aveva sul fianco stava peggiorando.
L’amore l’aveva ingannato.
A meno di un metro da lui, Paolo Portanova sanguinava da una gamba. Aveva il braccio destro mezzo rotto e il dolore alle spalle era feroce, come se avesse alzato, tutto solo, il peso di quella storia maledetta dove la sete di potere e di vendetta aveva infilzato le proprie unghie, imbevute di veleno, nelle carni molli dell’amore.

Non c’è mai stata stagione letteraria zeppa di noir, gialli e thriller (parole che non sono sinonimi di uno stesso genere ma indicano ciascuna un ‘sottogenere’ diverso) come questo ultimo quinquennio. Sull’onda dello spropositato successo della trilogia ‘Millennium’ dello svedese Stieg Larsson, morto prematuramente, da anni è stato tutto un moltiplicarsi di romanzi più o meno pulp, ossia truculenti. Alcuni interessanti, altri addirittura geniali, moltissimi però banali, pieni di morti ma senza un’idea di fondo che rispecchi la società nella quale  sono inseriti. E il punto è proprio qui: il valore aggiunto del genere noir è più sociologico che poliziesco. Perché il crimine nasce e si sviluppa dentro micro o macrocosmi che contengono anche le cause, o almeno buona parte di esse, e sui quali si ripercuotono gli effetti.
La cura dell’aspetto sociologico e, in una certa misura, anche antropologico è proprio il pregio di questo romanzo che fotografa una Siracusa inusuale perché piove, fa freddo e in giro non c’è neanche un turista.
Sono proprio Siracusa e l’isola Ortigia, con i loro ritmi di vita che da frenetici durante la stagione turistica, si fanno sonnacchiosi d’inverno, le grandi protagoniste di questa storia sicilianissima che è un grande gioco di specchi in cui niente è quello che si crede che sia.
E’ il capodanno del 1964 e nel commissariato di Siracusa arriva una telefonata. Una signorina dichiara di essere stata testimone di un omicidio. Tre loschi individui hanno ammazzato il titolare di un ristorante. Gli agenti accorsi sul posto però non trovano alcuna traccia che possa far risalire ai killer e, soprattutto, non trovano il cadavere dell’uomo. In compenso c’è il corpo di una donna letteralmente coperto di fotografie.
Una storia difficile da dipanare in un luogo in cui nessuno parla. Una storia che apre la porta su una storia torbida di potere politico, vendetta e amori sbagliati. Una storia molto bella, perché dietro alle parole di questo romanzo c’è un’intensa sicilianità.

Alberto Minnella

IL GIOCO DELLE SETTE PIETRE. Siracusa 1964

Frilli editore, 160 pagine, 8,92  euro anziché 9,90 su Internetbookshop. Disponibile anche il formato eBook a 5,49 euro.

Incipit. Questo libro. Se uno dei Padri costituenti, quelli veri, quelli del 1946-1947, tornasse miracolosamente in vita, salisse sul campanile del Quirinale e da lì desse un’occhiata all’Italia, chiamerebbe giù tutti gli altri per domandare loro, angosciato: «Scusate, ricordo male o nella Costituzione avevamo scritto Repubblica parlamentare?». Perché l’Italia del 2013 a tutto somiglia – a una monarchia, a un principato, a un sultanato, a un emirato, a un’aristocrazia basata sull’anzianità, a una tecnocrazia a sovranità limitatissima, al massimo a una Repubblica presidenziale – fuorché a una repubblica parlamentare. E questo si deve a Giorgio Napolitano, l’uomo che fin da giovane gli amici chiamavano scherzosamente «il figlio del re» per la sua straordinaria somiglianza con Umberto II di Savoia. E che ora, paradosso della storia, si è fatto lui stesso re.
Quella che state per leggere non è una biografia. Ce ne sono già fin troppe, una se l’è addirittura scritta lui. Questo è ciò che manca nelle altre. E’ la controstoria del primo presidente della Repubblica che ha concesso il bis, contro lo spirito della Costituzione e contro tutto quello che aveva giurato fino al giorno prima della sua rielezione. Alla veneranda età di ottantotto anni: quando un cittadino non può più guidare l’automobile. Ma lo Stato sì.

Travaglio è sempre Travaglio: è il mosaicista della storia attuale, anzi, attualissima perché a volte riesce perfino a indovinare, azzeccandoci, quello che succederà. Lui non inventa nulla, si limita a mettere insieme ogni frammento fino a creare un grande pannello che, come l’arazzo di Bayeux, racconta per immagini scritte quello che è successo, dando una precisa visione d’insieme ai fatti collocati nella storia.
Fino a ieri la storia è stata Berlusconi e tutta la sua corte. E Travaglio, nomen omen, frammento per frammento ha messo insieme leggi, leggine e decreti buoni, cattivi e più o meno ad personam, iniziative varie a vantaggio del governo proprio e per lo sgambetto dei governi altrui, promesse elettorali e patti con gli italiani, minacce, avvocati portati in parlamento e parlamento asservito ad avvocati, a commercialisti, a signorine. E soldi, tanti soldi che non è neppure possibile contarli, messi insieme da un uomo che continua a dichiararsi vittima di chiunque gli abbia opposto il minimo ostacolo.
Adesso la musica è cambiata. Accantonato a giudizio insindacabile dei giudici di Cassazione il Paperone delle tivù, Travaglio prende in esame qualcun altro. E chi, se non il principe dei politici? Chi se non “il presidente che trovò una repubblica e ne fece una monarchia”?
In questo libro il vicedirettore de Il fatto quotidiano per la prima volta ignora Berlusconi per dedicare tutta la sua attenzione a Giorgio Napolitano, il primo presidente della repubblica che ha fatto il bis invocato a furor di popolo da tutti gli schieramenti politici, tranne il movimento Cinque Stelle. Quegli stessi schieramenti che adesso fanno il diavolo a quattro a ogni sua iniziativa e lo accusano di essersi messo una corona in testa: l’état c’est moi!
E’ esagerato il livore che si scatena su Napolitano quando prende iniziative che non piacciono a qualcuno, però non tutto quello che fa oggi e non tutto quello che c’è nel suo passato, riluce.
L’uomo che siede in vetta al Colle è un uomo integerrimo, questo sì. Un grande mediatore che ha sempre avuto nel cuore il bene del Paese, ma che talvolta questo bene lo ha interpretato un po’ troppo secondo il suo modo di vedere.  Mettendo in fila i fatti, Travaglio racconta con uno stile che è così ironico e gradevole da dar l’impressione di star leggendo un romanzo, i retroscena dell’ultima drammatica elezione del capo dello Stato. E poi, per dare un’idea del periodo in cui stiamo vivendo, entra nel merito di molti fatti che hanno avuto come protagonista, attivo oppure neutrale, Giorgio Napolitano e  la sua influenza, palese e occulta, sui vari governi e sulle elezioni che hanno preceduto quella che lo ha visto salire al Colle per la seconda volta.

Questa non è una biografia del presidente della Repubblica, come spiega l’autore nelle prime righe. E’, semmai, una biografia della Repubblica che ha avuto un attore strategico del quale Travaglio, in controtendenza con i colleghi,  racconta tutto: parole, opere e omissioni. Non risparmiando quelle critiche che in un paese normale sarebbero oggetto di discussioni aperte ma che da noi sembrano tabù. Ma in un paese normale nessuno si sarebbe sognato di richiamare a un compito istituzionale così gravoso e impegnativo, in un periodo di rissosità permanente, un uomo lucido ma chiaramente stanco che ha compiuto ottantotto anni.

Marco Travaglio

VIVA IL RE. Giorgio Napolitano, il presidente che trovò una repubblica e ne fece una monarchia

Chiarelettere, 624 pagine, 14,36 euro anziché 16,90 su internetbookshop. Disponibile anche in formato eBook a 9,99 euro

Incipt: scena 1.1 Andrea Sterling: New York City. New York City, niente di meglio per ricominciare.
Andrea Sterling stava per compiere sessantun anni e la sua vita non era esattamente quella di un pensionato. Si guardò allo specchio in camicia e mutande mentre stringeva il nodo Windsor della cravatta di seta: cicatrici e un sacco di brutte storie su quella faccia che sapeva d’avventura. Suture vecchie d’un secolo dalla coscia al polpaccio, dove i calzini in tinta coprivano il resto di un passato troppo duro da ricordare. Infilò le braghe e la giacca in doppio petto nero notte da duemila dollari. Col pettine d’osso che teneva nel taschino sistemò i capelli. Una passata di gommina per darsi un tono; i mocassini di cuoio, l’impermeabile e quel cappellaccio a tesa larga che da qualche tempo era diventato il suo marchio di fabbrica.
Un’ultima occhiata: non c’era proprio niente che non andasse.
Si accese una paglia guardando fuori dalla finestra dell’attico in Upper West Side, un quartiere da ricchi. Central Park, oltre il vetro, era uno schiaffo in faccia alla povertà: quegli alberi, piantati nel cuore della più merdosa jungla di cemento di tutto il globo, ricordavano ai newyorchesi che ci sono solo due modi di giocare la partita: lavorare duro e passare la vita a prendere ordini; o rischiare tutto, fottere il banco e portarsi a casa il jackpot. La vita di Andrea Sterling era finita un sacco di volte sul tavolino del destino.

Molti penseranno che in queste 580 pagine si sviluppi un romanzo fiume di genere thriller o noir. E invece no. Si sviluppa un pezzo della nostra storia. Esattamente quella parte che comprende gli anni Ottanta e Novanta. Da nord a sud, da Est a Ovest, il Paese è rivoltato come una camicia: yuppismo e malaffare elevato a sistema, mazzette e holding off shore, delitti eccellenti e bombe di mafia. C’è tutto e di più. E non mancano gli agganci con gli episodi più oscuri: quelli dei depistaggi, da Piazza Fontana in poi; quelli delle guerre mafiose; quelli delle varie trattative fra pezzi dello Stato e malavita, fra servizi segreti e grandi imprenditori, finanzieri, faccendieri; quelli degli accordi fra politici e mafiosi.
Ce n’è per tutti in questo romanzo dossier che lega fra loro fatti eclatanti e episodi minori, trascurati dalle cronache ma assolutamente veri,  rispettandone la verità, lo spirito, la collocazione storica. 
Terzo libro della serie docu-novel, iniziata con Confine di Stato che si occupava degli anni Cinquanta a partire del delitto Montesi, la cui ‘soluzione’ pilotò un po’ più a destra la Democrazia Cristiana alterando  il corso della storia, e  proseguita con Settanta: la stagione della grande manipolazione di massa, delle bombe e dei misteri ancora irrisolti, Il Paese che amo  arriva a una svolta: quella di Tangentopoli, la stagione che si proponeva di fare pulizia nel Paese e che invece ha finito per dare il via a qualcosa di ancora peggiore: il sonno delle coscienze e la manipolazione della memoria collettiva affinché nessuno, in un’Italia spaventosamente corrotta, si alzasse una mattina e decidesse di cercare davvero le verità nascoste.
Ci sarà un seguito a quest’opera monumentale che tenta di fare buona ‘controinformazione’  mascherandola da romanzo in un Paese come il nostro, che considera l’informazione un delitto da punire con le querele?

Sì, crediamo proprio che ci sarà perché il peggio deve ancora venire.

Simone Sarasso

IL PAESE CHE AMO

Marsilio, 580 pagine, 16,58 euro anziché 19,50 su internetbookshop.