La rubrica "Novità editoriali" di Misteri d'Italia è tenuta da Adele Marini, giornalista professionista, specializzata in cronaca nera e giudiziaria, autrice di diversi libri tra cui il noir 'non fiction' Milano, solo andata (Frilli editori, 2005), pubblicato anche in Germania, con cui ha vinto nel 2006 il Premio Azzeccagarbugli per il romanzo poliziesco. Nel 2007, sempre con Frilli, ha pubblicato Naviglio blues, anch'esso tradotto in tedesco. Attualmente è in libreria con l'eBook Arriva la Scientifica (editrice Milanonera), secondo volume della collana Scrivi noir: i fondamentali della scrittura d'indagine dedicata alle procedure investigative e giudiziarie.
Incipit: “Che ci fosse qualcosa che non convinceva in quella esplosione alla farmacia di San Giuseppe Vesuviano, la dottoressa del Monte lo aveva già capito. Il clan dei Fabbrocino era così potente che non aveva bisogno di fare la guerra ai farmacisti, tanto meno a uno solo di loro. Il clan dei Fabbrocino sapeva, senza bisogno di leggere “L’arte della guerra” di Sun Tzu, che la migliore guerra e quella che si vince senza farla, non c’era bisogno di fare rumore, bastava una parola sussurrata e a San Giuseppe Vesuviano, prima dell’uscita dai negozi, la cassa si apriva con il suono di una campanella. Da questo punto di vista tre esplosioni nel paese non si spiegavano facilmente e l’ultima, davanti alla farmacia, era stata troppo forte”.
Un libro fantasma si aggira nelle librerie italiane. Gli autori sono due giornalisti d’inchiesta italiani piuttosto conosciuti, la casa editrice è di primo piano, il libro sta vendendo alquanto bene. Eppure ad accompagnarlo c’è un silenzio inquietante da parte dei media. Poche recensioni, nessun dibattito sui giornali. Ciononostante possiamo assicurarvi che si tratta di un lavoro di notevole spessore, oseremmo dire di un libro bomba, di quelli che non solo avvincono il lettore, ma che lo indignano e lo preoccupano allo stesso tempo. Evidentemente per la sempre più timida stampa italiana, ma ancor di più per l’assetto di potere attualmente esistente - poteri, partiti e poi su su fino al Quirinale - è l’argomento del libro che non va: la trattativa stato-mafia.
Stiamo parlando di “Processo allo Stato” di Maurizio Torrealta e Giorgio Mottola, due giornalisti televisivi di inchiesta. Il primo, cronista ultranavigato, noto al grande pubblico anche come conduttore tv, fondatore della redazione inchieste di Rainews; il secondo giovane cronista di Report, la trasmissione di Milena Gabanelli, e collaboratore del Fatto quotidiano. Nella prefazione il magistrato che ha tentato senza fortuna la sfida elettorale, Antonio Ingroia, scrive tra l’altro: “Un racconto fatto di materiali inediti che certamente diventeranno, a loro volta, materia di approfondimento investigativo da parte degli inquirenti”.
Il libro di Torrealta e Mottola della Trattativa sotto processo a Palermo scava invece proprio le origini e le tante connessioni. E ci consegna una puntigliosa ricostruzione di quanto è accaduto prima ancora che proprio quella Trattativa venisse scoperta. In pratica a partire da quel 1991 quando la mafia di Totò Riina decise di scatenare la “guerra allo Stato”, che sarebbe esplosa l’anno dopo con le stragi dove persero la vita Falcone e Borsellino. Ma lo fa con tanta accuratezza da mostrarci, quasi in presa diretta, quanto poco di quella stagione fu responsabile solo Cosa nostra se non fosse esistita una diretta copertura di uomini, forze, corpi ed organismi dello Stato italiano. E - a dimostrazione che la trattativa Stato-mafia non si è mai fermata - il libro fa una scoperta molto interessante, rivelandoci un vero e proprio segreto di Stato: l’esistenza, all’interno di quello che qualcuno con sprecata ostinazione continua a definire l’apparato antimafia, di un protocollo di intesa, il Protocollo Farfalla, ossia un accordo segreto stipulato tra i soliti, immancabili servizi segreti, nella fattispecie il Sisde (ora Aisi) e il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ossia l’organismo che ha come compito principale la politica dell’ordine e della sicurezza all’interno dei penitenziari. Un accordo probabilmente sottoscritto fin dal 2005 e che “in buona sostanza - scrivono gli autori - è un protocollo di poche cartelle su carta intestata del Sisde, firmato da Salvatore Leopardi (già sostituto procuratore di Caltanissetta ai tempi delle stragi di mafia, braccio destro del procuratore capo Giovanni Tinebra, a sua volta direttore del Dap. NdR), poco dopo il suo arrivo alla direzione dell’Ufficio ispettivo (del Dap) e dal capo del Sisde di allora, il prefetto Mario Mori (sotto processo a Palermo per la mancata cattura del boss Provenzano. Ndr)”. La cui finalità sarebbe stata quella di costituire all’interno dei penitenziari una sorta di superservizio segreto con tanto di centrali di ascolto, da tener nascosto alla magistratura.
Quello che emerge dal libro è che la Trattativa, da ormai qualche decennio, è il sistema preferito dallo Stato italiano non per combattere la criminalità organizzata in tutte le sue forme, ma per limitarne i danni. Ma questo solo nella migliore delle ipotesi. In ogni caso il libro ci convince della infondatezza della castroneria che alcuni ancora sostengono con passione. E cioè che in Italia esista uno Stato e un Antistato. Senza arrivare a sostenere ciò che in molti credono e cioè che le mafie altro non siano che una serie di bracci armati dello Stato, dopo la lettura di questo libro diventa difficile non credere che a molti, proprio all’interno dello Stato, faccia comodo convivere con la criminalità, scenderci a patti, aggiustare le situazioni più critiche ed allarmanti, piuttosto che combatterla come invece hanno fatto e fanno tanti magistrati onesti.
Maurizio Torrealta, Giorgio Mottola
PROCESSO ALLA STATO
Bur Rizzoli, 252 pagine, 10,20 € anziché 12,00, su internetbookshop
Incipit: “Matteo Messina Denaro non è solo. Il padrino di Castelvetrano, vero erede del capo corleonese Totò Riina, latitante da circa vent’anni, ha ancora intorno a sé una cerchia di fedelissimi che ne protegge gli spostamenti e ne tutela gli investimenti, nonostante le decine di arresti effettuati dalle forze dell’ordine. Non solamente mafiosi dalla coppola storta. Esiste un “cerchio magico” – un giro di mafiosi, uomini d’affari, imprenditori, politici e massoni – per i quali la libertà del delfino di Totò Riina è la garanzia di equilibri socio-economici consolidati. Soprattutto, Messina Denaro ha di nuovo interlocutori affidabili a Palermo”.
Da un paio di decenni gli italiani assistono a un fenomeno strano: ogni volta che si approssimano le elezioni i vari esponenti dei partiti, soprattutto di destra, entrando in campagna elettorale fanno man bassa del lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine. Nel senso che si attribuiscono senza ritegno e senza pudore il merito della cattura dei boss latitanti.
In realtà le catture dei latitanti sono il frutto di operazioni complesse, ordinate da magistrati a conclusione di indagini delicate e pericolose. A effettuarle materialmente sono le squadre speciali interforze, i Ros dei carabinieri e soprattutto la Catturandi della polizia di stato. Nessun merito spetta ai politici che, semmai, hanno il demerito di aver ammorbidito se non smantellato istituti giuridici realmente efficaci per il contrasto alla criminalità organizzata come, per esempio, il disposto del 41bis, istituito da chi la lotta ai boss la faceva davvero. Detto questo, ci si chiede chi comandi oggi nelle organizzazioni criminali come cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita. Come si sono evolute le cosche, come agiscano sui nuovi scenari che non sono più le forre dell’Aspromonte e le campagne bruciate della Sicilia occidentale, ma gli istituto finanziari, le attività commerciali, l’edilizia spesso finanziata con denaro pubblico.
Esistono ancora i boss o, piuttosto, hanno fatto carriera trasformandosi in amministratori delegati? Quali rapporti hanno con la politica? Su quali mercati si muovono? Rispondono ancora alle regole arcaiche dell’onore e del sangue?
Questo libro offre una visione a trecentosessanta gradi del fenomeno mafioso così com’è oggi: non più soltanto uomini in pantaloni di fustagno con la lupara al fianco, ma eleganti manager che sferrano colpi mortali all’economia con il mouse, trasferendo e riciclando miliardi di euro con pochi clic.
Sì, nonostante gli arresti eccellenti, i boss esistono e sono più aggressivi che mai. Formati alla vecchia scuola dei santini bruciati e dei giuramenti di sangue, tengono ancora saldamente in pugno le famiglie e spostano non solo denaro ma masse di voti. Questi boss hanno mandato i figli a studiare all’estero, in ottime scuole, facendone avvocati, esperti di finanza, capitani d’industria e oggi i loro assalti sono più pericolosi che mai perché sono in grado di mettere in ginocchio il nostro paese. E le stragi? Gli omicidi? Il sangue per le strade? Gli intrecci pericolosi con la politica? Quella è roba che non passa mai di moda. Al contrario, la minaccia rimane sospesa in permanenza: una sorta di garanzia per stringere patti e concludere lucrosi affari.
Vincenzo Caruso, Pietro Comito, Bruno De Stefano
I NUOVI BOSS. Camorra, 'ndrangheta e mafia. Chi comanda oggi
Newton Compton, 381 pagine, 8,42 € anziché 9,90 su internetbookshop
Incipit: «Voglio che tutti sappiano»
Nel marzo del 2010, quando ancora lavoravo per il quotidiano torinese «La Stampa», ho cominciato a raccogliere con un collega, Niccolò Zancan, le confidenze di Rocco Varacalli, pentito di ’ndrangheta, su un argomento che per molti anni è rimasto un tabù: l’infiltrazione della criminalità organizzata calabrese al Nord, e in particolare in Piemonte.
Di Varacalli i giornali parlavano ormai da qualche mese. La sua decisione di collaborare con la giustizia aveva fatto molto rumore, a Torino come in Calabria. Era diventato un testimone chiave in molti processi. Le sue confessioni sarebbero diventate l’architrave dell’inchiesta Minotauro, che avrebbe svelato la geografia, gli affari e le infiltrazioni della ’ndrangheta nel Nord-ovest d’Italia e i contatti con le cosche della provincia di Reggio Calabria”.
I pentiti di ‘ndrangheta si contano sulle dita. La struttura stessa della criminalità calabrese, fondata principalmente su vincoli di sangue, mette l’organizzazione al riparo dal pentitismo. Questa compartimentazione in gruppi familiari, che a loro volta si raggruppano in ‘locali’, molto chiusa, praticamente impenetrabile, ha fatto sì che nel silenzio dei media e con la complicità di certi politici le cosche si potessero infiltrare nell’economia sana del paese. Di tutto il paese, da nord a sud, da est a ovest.
Gli affiliati di ‘ndrangheta non si pentono. Non possono farlo perché ne andrebbe della vita di un intero clan e, come si sa, i morti chiamano morti. E’ per questo che quando Rocco Varacalli, giovane d’onore per vincoli parentali (zii, cognati), decise di testimoniare, l’evento fece scalpore.
Uscito dal programma di protezione, oggi Varacalli, pentito che si autodefinisce senza esagerazione ‘morto che cammina’, conduce una vita precaria, segnata dai continui trasferimenti, dal guardarsi le spalle, da fughe repentine e appuntamenti mancati. Eppure sostiene di essere soddisfatto perché finalmente si sente in pace con se stesso.
“So bene che posso essere ucciso da un momento all’altro,” dice. “La ’ndrangheta non perdona. Ma questa è la strada che ho scelto.”
Testimone chiave in molti processi, Rocco Varacalli con le sue confessioni ha costituito l’ossatura della maxi-inchiesta dei carabinieri ‘Minotauro’ che nel giugno 2011 ha portato all’arresto di centocinquanta persone e al coinvolgimento di politici, assessori, consiglieri regionali e imprenditori, disegnando la geografia degli affari e delle infiltrazioni della ’ndrangheta nel Nord-ovest d’Italia e i contatti dei boss con le cosche della provincia di Reggio Calabria.
“Ho condiviso la cella con gente del calibro di Rosario Barbaro, i Trimboli, i Nirta, i Morabito, che mi hanno confidato omicidi, estorsioni, intrighi con la politica e l’economia… Le ditte calabresi hanno operato in tutti i business più importanti: l’alta velocità, la nuova autostrada Torino-Milano, le Olimpiadi invernali del 2006, il porto di Imperia… solo per citare gli affari più clamorosi.”, racconta, disegnando inconsapevolmente una vera e propria epopea criminale della quale non si vede la fine.
Affiliato per ‘diritto di sangue’, con dodici anni di militanza sulle spalle, Varacalli, che è nativo di Natile, il paese che negli anni ’80 è diventato famoso per i sequestri di persona, nel corso della carriera criminale e dei periodi trascorsi in carcere ha avuto modo di conoscere mammasantissima e picciotti, soldati dell’organizzazione militare della ‘ndrangheta nota come ‘Crimine’ e fiancheggiatori, imprenditori, politici in cerca di affermazione e amministratori corrotti. C’è di tutto nella sua confessione: dal traffico internazionale di droga allo spaccio, dal riciclaggio multimiliardario di profitti illeciti alle commesse per imponenti opere pubbliche, dal traffico di rifiuti tossici all’abbraccio mortale (per il nostro paese) della criminalità con i politici. La sua testimonianza, ritenuta credibile dalle sentenze, è agghiacciante. Federico Monga, vicedirettore del Mattino di Napoli l’ha raccolta nel corso di vari incontri ultrasegreti. Leggerla, aiuta a comprendere come mai oggi la ‘ndrangheta sia ritenuta fra le più ricche, le più articolate, le più feroci organizzazioni criminali del mondo.
Federico Monga, Rocco Varacalli
SONO UN UOMO MORTO. Parla il pentito che ha svelato i segreti della ‘ndrangheta al Nord
Chiarelettere, 193 pagine, 11,82 € anziché 13.90 su internetbookshop
Incipit: “Ho notato sovente nelle elezioni – scriveva nel 1913 André Siegfried nell’introduzione al suo pionieristico Tableau politique de la France de l’Ouest sous la troizième République – che le opinioni politiche sono soggette a una ripartizione geografica. Ogni partito o, più esattamente, ogni tendenza, ha il suo dominio; e con un po’ di attenzione si distingue che ci sono regioni politiche come ci sono regioni geologiche o economiche e climi politici come ci sono climi naturali”. E’ a partire da queste considerazioni, che risalgono ormai a quasi un secolo fa, che nasce questo lavoro”.
A un paese di smemorati come l’Italia ogni tanto un promemoria non fa male. Al momento in cui scriviamo con la campagna elettorale arrivata al culmine, nessuno degli aspiranti leader, dei candidati al parlamento, dei futuri consiglieri regionali per le Regioni che devono rinnovare le cariche, riesce a resistere alla tentazione di sciorinare, nel corso dei doverosi passaggi in televisione, dati, nomi, cifre. Talvolta con sincerità e precisione. Spesso a casaccio o mentendo in modo strumentale senza timore di essere smentiti perché chi ricorda più i risultati delle competizioni regionali e politiche di qualche decennio fa? Chi ha in mente la composizione del parlamento delle ultime legislature?
Questo magnifico ‘promemoria’ pubblicato da Zanichelli è uno strumento importante per tutti i cittadini elettori e per chiunque abbia a cuore le sorti del paese. Permette infatti di capire l’evoluzione e l’involuzione del nostro paese nel corso del tempo attraverso precise fotografie delle varie forze in gioco rapportate allo stato di salute economica e sociale del loro tempo, elezione dopo elezione. Con la pazienza e la precisione dei monaci amanuensi, Piergiorgio Corbetta e Maria Serena Piretti, entrambi docenti universitari, hanno ricostruito e trasferito non solo in cifre ma in grafici e cartine l’identità politica degli italiani dall’Unità al 2008.
Nell’Atlante c’è tutto quello che riguarda le tendenze politiche degli italiani, le competizioni elettorali, legislatura dopo legislatura, e i risultati: dai simboli dei partiti coinvolti nelle dispute, alle percentuali dei votanti, fino ai risultati di ogni singolo partito analizzati regione per regione. Il tutto è stato inquadrato nel contesto storico-politico culturale e corredato da un veloce ‘ripasso’ fotografico che riprende in poche ma significative immagini gli eventi salienti o percepiti come tali a livello nazionalpopolare.
Piergiorgio Corbetta Maria Serena Piretti
1861-2008 ATLANTE STORICO-ELETTORALE D’ITALIA
Zanichelli, 208 pagine, 46,32 € anziché 54,50 su internetbookshop
Incipit: “Non mi sarei mai aspettato di ritornare in questa strada. Né che il mio vecchio cuore provasse tanta emozione nel calpestare i marciapiedi della Lapa. Quando sono sceso dal taxi davanti all’hotel è stato come se una palla da demolizione mi fosse venuta addosso. Sono rimasto per un momento senza respiro, invaso da sentimenti, ricordi di odori, immagini, voci. Non rammento nemmeno di aver pagato il taxi, né le parole che mi ha rivolto il portiere alla reception. All’improvviso più niente esisteva. Solo Lisbona di cinquant’anni fa. La mia Lisbona, dove amai tanto e tante volte”.
Gil Mascarenhas, portoghese per parte di madre e inglese per il padre, torna a Lisbona che aveva lasciato nel 1945. Deve solo partecipare alle nozze di un nipote ma quell’invito è per lui l’occasione per un viaggio nella memoria.
Nel 1941 Gil, conosciuto dai frequentatori delle ambasciate come ‘Jack Gil’ in omaggio alla sua parte inglese, vive a Lisbona. In quegli anni il Portogallo è una specie di Svizzera sull’Atlantico grazie alla sagacia del dittatore Salazar che, pur simpatizzando per Mussolini, per Franco e per Hitler, ha dichiarato la neutralità del paese, tenendolo al riparo dal conflitto. Questo ha fatto sì che Lisbona diventasse un porto sicuro per migliaia di ricchi in fuga, soprattutto ebrei di tutte le nazionalità.
Jack Gil appartiene alla gioventù dorata di Lisbona e non ha un’idea politica precisa. E’ convinto, come molti, che prima o poi nazisti e fascisti invaderanno insieme la penisola iberica, assoggettando anche il Portogallo nonostante la neutralità. Quindi vive ogni giorno e ogni notte con la frenesia di chi teme di vedersi sfuggire la vita da un giorno all’altro, allacciando rapporti con i nuovi arrivati, soprattutto con le donne. Ma fra i rifugiati pullulano spie al soldo di ogni bandiera, anche quella tedesca e la piazza su cui si affacciano gli ingressi delle due ambasciate belligeranti, quella inglese e quella tedesca, sono perennemente sorvegliate perché il quiescente Salazar, in realtà, non dorme mai e la sua rete di controspionaggio è capillare. Sa bene che nel suo paese si combatte una guerra di spie e la sua tolleranza è pura apparenza. In realtà sorveglia tutto e tutti, soprattutto gli italiani e i tedeschi, in attesa dell’occasione per volgere la situazione a proprio vantaggio.
Naturalmente la rete spionistica più attiva e potente è quella tedesca, ma occhi e orecchi sono dappertutto: ambasciatori, regnanti, agenti della polizia politica di Salazar e tassisti, camerieri. Lo stesso Jack Gil è membro del club di spioni. Fino a quando incontra l’infelice Mary, moglie di un agente britannico molto imprudente, che si è messo in capo di armare i partigiani portoghesi in vista dell’invasione italo germanica.
Questo romanzo deve molto poco alla fantasia. Nella nota finale l’autore dichiara l'autenticità storica della maggior parte dei fatti riferiti. Per questo rappresenta un punto di osservazione del conflitto mondiale e della dittatura di Salazar, anche in relazione al fascismo italiano, molto insolito e per certi versi sconosciuto, approfondendo certi sotterranei rapporti di forza delle parti in conflitto e permettendo di comprendere le ragioni profonde del lunghissimo, sommesso consenso popolare che ha consentito al dittatore di restare al comando fino al 1974. Assolutamente da non perdere.
Domingos Amaral
MENTRE SALAZAR DORMIVA. memorie di una spia a Lisbona
Cavallo di ferro, 397 pagine, 13,60 € anziché 16,00 su inernetbookshop
Incipit: A lungo mi ero immaginato che fosse passato sul Ponte, perche il ponte è la porta verso il Posto, e di fatto, anche la sua chiave. Naturalmente non è cosi, perché deve essere arrivato con un treno da sud. Sul Ponte si passa soltanto quando si arriva con i treni da nord. Solo allora si apre l’abisso vertiginoso sopra il Canale, ed è solo allora che si supera il pericoloso confine fra l’essere a casa e l’essere via.
Forse, non è il Canale a rappresentare questo confine, ma il Ponte. In fin dei conti, il Canale e soltanto acqua, mentre il Ponte e un passaggio minaccioso, un freddo scheletro di travi d’acciaio saldate e imbullonate in angoli acuti e archi squadrati fino a formare due spalle ossute che, appoggiate a quattro pilastri massicci, si innalzano sopra il corso d’acqua ai lati del battente apribile.
Chi arriva con il treno, ovviamente, non vede nulla di tutto questo, forse non sente nemmeno la struttura che vibra e trema sotto la locomotiva e i vagoni, non sente le rotaie che stridono, l’eco metallico delle ruote che grattano
e martellano sulle travi d’acciaio, non avverte l’odore di bruciato dei cavi che fanno scintille.
I genitori dell’autore, Göran Rosemberg avviati ad Auschwitz con gli ultimi convogli prima della fine della guerra sono sopravvissuti allo sterminio programmato. Salvati dai sovietici e sballottati qua e là dalla varie organizzazioni umanitarie fra cui la Croce Rossa Internazionale, alla fine di una viaggio interminabile riescono a raggiungere la Svezia e a stabilirsi a Södertälje, in Svezia. Un luogo magico fra boschi e canali ma isolato.
Il mondo, da poco liberato dal mostro nazista, sta riprendendo a vivere. Pochi hanno voglia di ricordare l’orrore appena passato che è testimoniato, appunto, dalla magrezza e dagli occhi persi dei sopravvissuti. I genitori di Göran Rosemberg riescono faticosamente a integrarsi e a conquistare qualche piccolo lusso domestico. Ma lasciarsi alle spalle il treno piombato, la morte di amici e parenti, il breve soggiorno ad Auschwitz, fra montagne di cadaveri e il fumo dei camini, brutalità e fame, terrore e malattie, non è facile. I ricordi, tatuati sulle braccia sotto forma di numeri di matricola, tornano quando la serenità della nuova vita sembra a un passo. E di colpo tutto viene nuovamente sconvolto.
Con la delicatezza e la cautela con cui un operaio esperto maneggerebbe una sbarra arroventata, Göran Rosemberg maneggia i ricordi incandescenti della sua famiglia cercando di piegarli alla sola logica che li renderebbe sopportabili: quella della conoscenza.
Questo libro è un pugno nello stomaco ma va letto, assolutamente. Perché è un documento che non ha la pretesa di testimoniare al mondo cosa fu realmente l’olocausto, ma vuole ricordarne gli effetti a lungo termine, simili alle malattie che esplodono anni dopo la contaminazione nucleare, sui sopravvissuti e i loro famigliari.
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Goran Rosenberg
UNA BREVE SOSTA NEL VIAGGIO AD AUSCHWITZ
Ponte alle Grazie, 353 pagine, 13,42 anziché € 15,80 su Internetbooshop
Incipit: “Campionario di errori. Tempi duri per l’olio. Il rischio della preferenza per un altro condimento appare molto forte. Qualcuno ha addirittura inventato una nuova parola: ≪burrocrazia≫. Ma chi e stato? Uno stravagante chef di fama con gusti limitati? Oppure l’estrosa conduttrice di un programma televisivo di successo dedicato alla cucina? O un fantasioso pubblicitario?
Niente di tutto questo. E in realtà il termine burrocrazia non certifica il dominio incontrastato del burro a scapito dell’olio. Ma si trova in uno degli scritti zeppi di errori dei quarantatre laureati partecipanti al concorso per due posti di ispettore di polizia municipale a Rapallo, in provincia di Genova. Laureati con una strana passione per il raddoppio di alcune consonanti. Per esempio scrivono ≪addozione≫ invece di adozione e ≪spazzi≫ invece di spazi. All’uso abbondante di alcune lettere non corrisponde però una preparazione altrettanto abbondante. Anzi per la commissione esaminatrice i candidati (provenienti da tutta Italia e con un’età compresa fra i 25 e i 55 anni) sono assolutamente inadeguati visto il campionario di errori di forma, di sintassi e di ortografia rilevati negli scritti”.
Perché l’Italia non cresce? Perché l’economia va allegramente a rotoli e il paese sembra non avere memoria delle cause del disastro? Lo spiega Roberto Ippolito nel modo più spassoso ma anche efficace: svelando cosa si nasconde dietro certe lauree, certi posti chiave nella politica e nei consigli di amministrazione. Per non parlare di chi occupa i seggi nei consigli comunali e regionali e in parlamento. Non (almeno, non soltanto) complotti, combine, accordi segreti per offrire il paese su un piatto d’argento agli speculatori, ai grassatori, ai corruttori e ai corrotti, agli evasori ai banchieri. Ma tanta, tantissima ignoranza.
Proprio così: gli italiani che dovrebbero guidare il paese sono ignoranti nel senso più vasto del termine, cioè non hanno studiato sui banchi di scuola e hanno fatto del loro meglio per scansare l’istruzione anche nella vita. E poiché all’ignoranza si accompagnano sempre la prosopopea e l’arroganza, non c’è speranza che prima o poi chinino il capo sui libri per colmare le lacune.
Con nomi e cognomi il libro fornisce uno stupidario incredibile che permette di capire perché l’Italia sia il fanalino coda nelle classifiche europee dell’istruzione e della cultura. Non solo, ma offre un dettagliato resoconto delle lacune nazionali, cominciando proprio da chi, dell’istruzione se non proprio della cultura, dovrebbe gestire gli strumenti e cioè dagli ‘esperti’ ministeriali che riempiono di svarioni i test dei concorsi, degli esami di maturità, degli accessi alle facoltà universitarie, dando il via, a ogni sessione, a raffiche di ricorsi e controricorsi. “Quasi un quiz su cinque è sbagliato”, precisa Ippolito. “Con tante domande sbagliate, anche i bocciati sono tanti. I quiz di filosofia [nel 2012] sono stati superati soltanto da 141 iscritti su 4239, cioè il 3,3 per cento. In otto università, fra cui Milano e Trento, nessuno ci è riuscito.”
L’Italia ha anche un record poco invidiabile, anzi, due: occupa uno dei primi posti nella classifica mondiale dell’evasione scolastica ed è fra gli ultimi per numero di laureati e di diplomati. Eppure si continua a tagliare i fondi per la scuola pubblica e a foraggiare le scuole private che, quanto a livelli educativi, sono giudicate inferiori alle pari grado degli altri paesi occidentali. Dunque, come stupirsi se gli studenti italiani nei concorsi internazionali non reggono il confronto con i coetanei europei? Non tutti, per fortuna, sono svantaggiati: una agguerrita pattuglia di geni continua a farsi onore in patria e all’estero. Ma nei grandi numeri da noi è l’incultura che impera. E intanto il paese arretra.
Roberto Ippolito
IGNORANTI. L’Italia che nonsa l’Italia che non va
Chiarelettere, 170 pagine, 10,96 anziché € 12,90 su internetbookshop
Un’opera che, aggiornata di anno in anno con le nuove produzioni, non solo è un vero monumento alla cinematografia, ma offre un’immagine assai precisa dei gusti degli italiani in fatto di cinema.
Anche questo Morandini 2013, come i volumi che lo hanno preceduto, non dovrebbe mancare nella biblioteca dei cinefili, dei semplici ‘curiosi’ di cinema e perfino di coloro che al cinema vanno ogni tanto, attratti soprattutto dai film-evento iperpubblicizzati. Infatti, oltre a una concisa sinossi delle trame, l’opera riporta tutti i dati riguardanti la regia, la produzione e il cast di 25.000 film usciti nelle sale italiane dal 1902 all’estate 2012. Di ogni film straniero, oltre al titolo italiano, è dato il titolo originale e, quando si tratta della trasposizione cinematografica di opere letteraria, anche il titolo e l’autore del romanzo. Ma l’aspetto più interessante sono i giudizi di merito di tutti i film: giudizi dei critici e giudizi del pubblico. Ed è interessante osservare come spesso divergano, soprattutto quando riguardano opere risultate molto apprezzate dal grande pubblico.
Laura, Luisa e Morando Morandini
IL MORANDINI 2013. Dizionario dei film con licenza annuale on line individuale a privati. Con dvd rom
prefazin
Zanichelli, 2047 pagine, 25,50 € anziché 30,00 con licenza annuale on line individuale a privati su internetbookshop.
37,60 € con DVD-Rom allegato contenente le schede di 25.000 film, foto di scena e riproduzioni delle locandine.
Incipit: “Se capitaste in un piccolo borgo rurale, di quelli che sulla carta bisogna mettersi d’impegno per trovare, al cospetto di un omone a dorso nudo grande come un armadio, che vi grida contro con occhi feroci mentre impugna una spada giapponese affilata come un rasoio, intanto che le teste di cuoio dei carabinieri vi sparano addosso bombe al peperoncino – che fanno lacrimare voi e l’energumeno come vitelli – e un nugolo di vecchietti artritici immersi in una pozza d’acqua tiepida fino alle ginocchia assiste alla scena, ridendo di gengiva e indicando un piccoletto che vi viene incontro infilato dentro un’armatura quattrocentesca e brandisce una mazza ferrata, ecco, l’unico consiglio, casomai vi trovaste in questa situazione è: non disperate e rimanete calmi. Non siete morti”.
Ogni tanto, per tirare il fiato fra un mistero e l’altro, fra una strage e un episodio criminale, un romanzo ci vuole e se è scritto in punta di humour senza mai cadere nella battuta facile, nell’italica risata sulle donne e sulle debolezze altrui, tanto meglio.
In questo romanzo ci sono elementi di divertimento puro ma anche tanto realismo nel descrivere lo scorrere della vita in un piccolo borgo della Bassa padana. Un paese così ‘rosso’ che le strade sono tutte dedicate alla nomenclatura comunista, italiana e sovietica.
Cosa si può fare per ingannare la noia in un posto così, una Piccola Russia schiacciata fra le campagne e l’argine del Po, con un rapporto suini-umani dieci a uno? Risposta senza alternative possibili: si va al Bar della Polisportiva vero cuore pulsante del luogo e ci si scambia gli ultimi pettegolezzi al tavolo della briscola, fra una birretta e un bianchino.
Piccola Russia è tagliato fuori dal mondo civile ma è un nucleo perfettamente autonomo, dotato com’è di chiesa, municipio, trattoria dove si mangia bene, porcilaie e farmacia.
Giustappunto, la farmacia! E’ proprio da quella che prende l’avvio tutta la vicenda. Capita infatti che la moglie del farmacista, prossima al parto, sia presa dalle doglie in piena notte e nella concitazione del momento il marito dimentichi di apporre il cartello alla vetrina per avvisare la clientela.
Farmacia chiusa, niente farmaci.
L’indomani è un viavai di mutuati indignati che davanti alla serranda abbassata scuotono il capo, seccati di dover rifare il viaggio. Fin qui, niente di grave. Se non che fra di loro c’è il matto del paese, un ragazzone grosso come un armadio con un’insana passione per le arti marziali giapponesi e pericolosamente in possesso di una katana. Lo chiamano il ‘Gaggina’, uno che è meglio non irritare perché proprio innocuo non è. Quel mattino si era recato in farmacia proprio per fare provvista dei farmaci che avrebbero dovuto tenerlo tranquillo. Quindi non c’è da stupirsi se davanti alla porta chiusa dà in escandescenze. Lasciato in balia di se stesso il Gaggina dà fuori di matto, aprendo la strada a una catena di eventi tragicomici che includono anche la scoperta di un cadavere sull’argine del Po e un’indagine esilarante del maresciallo Valdes, comandante della stazione dei carabinieri.
Delizioso, credibile anche negli episodi che sfiorano il surreale, questo romanzo dà voce all’Italia minore che continua a sopravvivere nonostante i mutamenti epocali: quella delle partite a briscola, delle feste dell’Unità a base di salamelle e gnocco fritto, delle zanzare che volano in formazioni da guerra e delle calde serate in cui sudano perfino i pensieri.
Paolo Roversi
L’IRA FUNESTA. Il primo caso del maresciallo Valdes
Rizzoli, 320 pagine, 14,45 € anziché 17,00 su internetbookshop
Incipit: “Quella mattina sono rimasto lì, da solo. Il gruppo di familiari e amici ha preso una jeep per andare a visitare una tenuta da qualche parte. Io no: ho chiesto e ottenuto una mattinata di splendido isolamento. Ne ho bisogno, ogni tanto: un periodo di pace, con i miei pensieri, senza nessuno intorno. E infatti sono solo nella hall, ad ascoltare il vento che soffia sulla pianura e a guardare fuori dalle vetrate la grande spianata battuta dalle raffiche. Dopo il cantiere di una strada di incomprensibile larghezza, domina un’oasi coloratissima. Sotto il cielo del blu più terso del mondo, il verde dell’erba, la terra bruciata, i fenicotteri rosa, mai visti prima in vita mia. Poi i rossi, i gialli, i viola dei fiori, e ancora un blu inedito, quello delle acque dell’oasi. Più in là, la mole imponente del lago Argentino, quello stesso chiuso a nord dai ghiacciai, con alcuni iceberg che galleggiano distrattamente qua e là; sullo sfondo, montagne scure, con
nessuna traccia di vita, pochi alberi, molte pietre, molta terra”.
Un libro che parla di libri o, più esattamente, dell’amore per i libri dei grandi ‘librivori’ dal XIV ai nostri giorni. Un viaggio ideale fra collezionisti, volumi rari e preziose biblioteche, narrato con amore e in punta di ironia. L’autore, grande appassionato oltre che collezionista, fortunato possessore di oltre diecimila libri, parte da Francesco Petrarca, sulla cui figura riversa ricordi scolastici e ammirazione sconfinata non tanto per il poeta inventore di uno stile letterario destinato a fare scuola, ma per quel grande collezionista di manoscritti che è stato. Da Petrarca e il suo mondo di eruditi, cavalcando i secoli, sfiorano con soave leggerezza personaggi leggendari: papi e cardinali come Niccolò V, Federigo Borromeo, Mazarino. Poi re, regine e cortigiane: Caterina II di Russia e madame de Pompadour. Personaggi semisconosciuti e insospettabili come Hernando Colón, figlio illegittimo di Cristoforo Combo. E poi il grande Shakespeare alle prese con i suoi squattrinati stampatori e, giù giù, il conte Monaldo Leopardi la cui immensa biblioteca segnò la vita del figlio Giacomo. E Borges sepolto nella sua Babél. Decine di figure note e sconosciute, tutte possedute dal "furore di avere libri" e dal desiderio di fondare una biblioteca, fino a Umberto Eco, eclettico librivoro dell’università di Bologna.
Un libro colto e allo stesso tempo di facile e gradevole lettura, che farà la felicità dei libro-dipendenti che resistono al fascino della futilità conservando un amore viscerale per la parola scritta e per il pensiero.
Un libro nel quale, incredibilmente, gli italiani fanno una magnifica figura tanto da far sospettare che le statistiche riguardanti la diffusione della cultura nel nostro paese non ce la raccontino giusta.
Un libro che farà innamorare anche coloro che i libri li leggono solo quando possono prenderli a prestito perché “occupano spazio in casa”, “attirano la polvere” e “costano troppo.”
Un libro che farà riscoprire la voglia di collezionare volumi con lo spirito giusto: quello di Marguerite Yourcenar sintetizzato dalla sua celebre frase: "Fondare biblioteche è un po’ come costruire granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire."
Andrea Kerbaker
LO SCAFFALE INFINITO
Ponte alle Grazie, 192 pagine, € 14,00