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Anno 6 - n. 99    13 aprile 2005

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IN QUESTO NUMERO:

-       Attentato al Papa: riprende quota solo la pista del KGB

-       Assassinio Calipari: il misterioso ingegnere elettronico

-       Assassinio Calipari (2): un mese dopo anche l'inchiesta è morta

-       Assassinio Calipari (3): prosciolti militari USA che uccisero genitori di cinque figli

-       Pantano Iraq: si allunga il capitolo delle torture

-       Pantano Iraq (2): tutto chiaro sulla morte del parà italiano?

-       Pantano Iraq (3): la compagna di un civile morto a Nassiriya ha gli stessi diritti di una moglie

-       Pantano Iraq (4: un sondaggio dell'Apcom/IPSOS

-       Pantano Iraq (5): australiani bocciano invio nuove truppe

-       Caso Alpi-Hrovatin: "a novembre novità", dice la madre di Ilaria

-       Mafia: la beffa di Provenzano finisce in scartoffie

-       Mafia (2): "pentita" dice di aver visto Provenzanovestito da vescovo

-       Mafia (3): comincerà il 3 maggio il processo a Mori e "Ultimo"

-       Terrorismo italiano: per Banelli e Proietti una condanna senza sconto

-       Terrorismo italiano (2): Castelli e Casimirri

-       Terrorismo italiano (3): due film sull'omicidiodi Guido Rossa

-       Omicidio Calabresi: altri due anni di domiciliari per Bompressi

-       Fatti di Genova: poliziotto indagato dice: "la parola d'ordine era repressione"

-       Telekom Serbia: procura Torino chiede archiviazione

-       Afghanistan: Karzai vuole sbarazzarsi delle ONG

-       Afghanistan (2): prima donna serial killer

-       Kosovo: da premier a imputato di crimini di guerra

-       Ex Jugoslavia: ex militante di Al Qaida denuncia crimini di guerra musulmani

-       Medioriente: i legami della Jihad islamica in Siria e in Iran (secondo Israele)

-       Giappone: il fenomeno dei suicidi via web

-       Albania: 670 famiglie autorecluse per il codice della vendetta

DOCUMENTAZIONE:

-       TERRORISMO ITALIANO: IL MEMORIALE DELLA PROIETTI

-       MAFIA: CHI E' BERNARDO PROVENZANO

-       EX JUGOSLAVIA: CHE COS'E' IL TRIBUNALE PENALE INTERNAZIONALE

ATTENTATO AL PAPA:

RIPRENDE QUOTA SOLO LA PISTA DEL KGB

L'emozione mediatica per la morte di Giovanni Paolo II riporta a galla i misteri dell'attentato da lui subito nel 1981. Sarà forse proprio l'emozione ad indirizzare tutte le rivelazioni su quell'episodio verso la pista sovietica, la più ovvia.

Uno dei massimi esperti della vicenda, l'ex magistrato Ferdinando Imposimato, interpellato dall'Adnkronos, ha spiegato che nNDNKRONOS spiega che ndo Imposimatoda, l' ovvia. ma anche la più discutibile. le rispolvera?e del sempre loquace Taormina el novembre 1979, "Ali Agca evase dal carcere di massima sicurezza di Kartel Maltepe con la complicità dei servizi segreti dell'Est che avevano infiltrati anche all'interno degli apparati di intelligence turchi. Con la lettera apparsa il 28 novembre 1979, giorno della visita del Papa in Turchia, sul giornale Millyet, Agca minacciava di uccidere il Ôcomandante dei crociati Giovanni Paolo II'. Si creò così la falsa pista islamico-nazista che apriva la strada alla disinformazione sull'attentato del 13 maggio '81 per mano del Lupo Grigio".

Imposimato ha rivelato inoltre che nel novembre del '97 il Pontefice gli fece giungere, tramite Monsignor Giovanni Battista Re, sostituto alla Segreteria di Stato del Vaticano, una lettera nella quale lo esortava "ad andare avanti sulla strada della verità e della giustizia".

Imposimato, che ha sempre sostenuto il coinvolgimento dell'Est nell'attentato, ha affermato ancora che "gli apparati comunisti, terrorizzati da ciò che un Papa polacco avrebbe potuto provocare, puntarono subito dopo l'elezione di Karol Wojtyla sul Lupo Grigio Agca e su una rete di suoi complici".

Nei fascicoli della STASI, il servizio segreto della Germania est, l'ex giudice istruttore dell'attentato al Papa trovò i nomi di alcuni dei turchi dei quali si serviva il potentissimo apparato della DDR. "Uno di questi - ha spiegato Imposimato - era Yalcin Olzbey, anche lui appartenente all'organizzazione di estrema destra dei Lupi Grigi che aveva partecipato all'omicidio di Abdi Ipecki, direttore del giornale Millyet. Successivamente fuggì in Germania e poi si sistemò a Bokum". Altri nomi della rete turca della STASI sono Cerdar Celebi e Bekir Celenk, quest'ultimo, sempre secondo Imposimato, "dirigeva i suoi traffici di droga dalla capitale bulgara Sofia. Per poter agire in tranquillità, fungeva da informatore per i servizi segreti dell'Est". Su di lui, gravava tuttavia il sospetto che fosse un agente doppio e quindi che passasse informazioni anche all'Occidente. Ancora, Mehmet Cener, che si trovava a Zurigo insieme a Omer Backi, andò a Milano a portare la pistola che servì per l'attentato del 13 maggio '81.

"A Vienna - ha osservato Imposimato - partecipò con Oral Celik e Mehmet Ali Agca a tutte le riunioni preparative. Il giorno dopo il suo arrivo in carcere in Turchia è morto d'infarto. Non bisogna dimenticare che il Patto di Varsavia era fortemente contrariato dall'ingresso della Turchia nella NATO, circostanza questa che indusse i servizi dell'Est a infiltrare in Turchia molti dei loro uomini".

In questi giorni sono riemersi anche particolari già noti sui tentativi di nfiltrazione del KGB in Vaticano, resi noti nell'autunno del 2000 in un libro inglese intitolato Il Terzo Segreto. La Cia, Solidarnosc e il complotto del Kgb per uccidere il Papa, edito da Harper Collins, firmato da Nigel West.

Nigel West è lo pseudonimo dell'ex deputato conservatore inglese Rupert Allason, vicino ai servizi segreti di Sua Maestà, nonchè editore europeo del Giornale di spionaggio e controspionaggio di Washington.

Secondo Nigel West,una prova della complicità del KGB nel tentativo di assassinare Giovanni Paolo II è offerta dalla reazione dello stesso KGB e dell'SB (il servizio segreto polacco del regime comunista) alla sua elezione al soglio di Pietro. Il giorno seguente l'elezione papale (17 ottobre 1978), il residente del KGB a Varsavia, Vitali Pavlov, inviò a Mosca questo rapporto: "Wojtyla ha una visione profondamente anticomunista. Senza opporsi apertamente al sistema socialista, ha criticato il modo in cui operano le agenzie statali della Repubblica popolare polacca, formulando le seguenti accuse: i diritti umani fondamentali dei cittadini polacchi sono limitati; esiste un inaccettabile sfruttamento degli operai; le attività della Chiesa cattolica sono ostacolate e i cattolici trattati come cittadini di seconda classe; è stata organizzata una pressante campagna per imporre alla società l'ateismo e convertire i cittadini a un'ideologia estranea; la Chiesa Cattolica vede negato il proprio ruolo culturale, privando in tal modo la cultura polacca del suo tesoro nazionale".

Inoltre i leader del Patto di Varsavia, come Teodor Zhivkov, Gustav Husak e Erich Honecker, tenevano il Cremlino sotto una crescente pressione dal novembre 1980, perché si decidesse un intervento risoluto per distruggere il pericolo di una seconda Primavera di Praga, mentre era ancora in germoglio. Il 26 novembre, Honecker incalzava Breznev a passare alle vie di fatto: "Secondo le informazioni che ci giungono attraverso diversi canali, le forze controrivoluzionarie della Repubblica popolare polacca sono in costante offensiva e qualsiasi ritardo del nostro intervento contro di esse significherebbe la morte la morte della Polonia socialista. Ieri un nostro sforzo collettivo poteva essere considerato prematuro; oggi è essenziale e domani potrebbe essere già troppo tardi".

All'incontro del Patto di Varsavia convocato d'urgenza il 5 dicembre, non poteva esservi più alcun dubbio sulla pericolosità della situazione in Polonia per la stessa esistenza di quei regimi e sulla violenta ostilità di quelli nei confronti del Papa polacco.

Prima del tentativo di assassinare Papa Giovani Paolo II, il cardinale Agostino Casaroli, Segretario di Stato, aveva respinto sdegnosamente i tentativi svolti da Bill Casey per stabilire un contatto tra la CIA e il Vaticano, ma in un secondo momento il Papa accettò di prendere visione di rapporti segreti, con fotografie dei paesi del Patto di Varsavia scattate dai satelliti spia. Per la CIA, il Papa fu una delle cinque persone responsabili della caduta dell'Impero Sovietico. Al generale di origine inglese Vernon Walters, venne assegnata dal Segretario di Stato americano, il cattolico Judge William Clark, la responsabilità di "spiegare al Papa le politiche degli USA in materia di affari esteri e difesa".

ASSASSINIO CALIPARI:

IL MISTERIOSO INGEGNERE ELETTRONICO

Ci si interroga - per ora senza risposta - sul significato del probabile depistaggio messo in atto, con l'avallo del suo legale, dall'ingegnere elettronico Gianluca Preite, che, secondo quanto da egli stesso affermato, sarebbe in possesso della traccia di una telefonata in cui si sentirebbe una voce italiana che dice "sparate sull'auto di Calipari e uccidete lui e la Sgrena".

Per i pm che indagano sulla morte di Nicola Calipari ed il ferimento di Giuliana Sgrena, però, non ci sarebbe nessuna traccia di questo nelle registrazioni acquisite finora dagli inquirenti ed inoltre sono molti i sospetti riguardo quanto dichiarato dal sedicente professionista che è assistito dall'avvocato Carlo Taormina. In ogni caso la procura ha aperto un'indagine rispetto a quanto detto da Preite, parallelamente però lo stesso è indagato per intromissione abusiva in un sistema di comunicazione informatica e truffa alle procure di Chieti e Lecce.

La complessa ricostruzione delle fasi dell'incidente avvenuto vicino alle porte di Baghdad e che ha portato alla morte di Nicola Calipari potrebbe aver subito un rallentamento. Per questo gli investigatori, diretti dai pm Franco Ionta, Pietro Saviotti ed Erminio Amelio, hanno già affidato l'incarico agli uomini del Gat della Guardia di finanza guidati dal col. Umberto Rapetto, di acclarare quanto è stato affermato da Preite, che getta comunque un'ombra su quella convulsa operazione che portò al rilascio della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena e all'uccisione del funzionario del SISMI.

Parlando della telefonata intercettata, Preite avrebbe detto di aver registrato la comunicazione nella memoria del suo computer. Ma dall'esame del pc, sequestrato dagli inquirenti, non è finora emersa traccia della conversazione citata. I magistrati sospettano un tentativo di disinformazione.

Tra l'altro, nell'abitazione dell'uomo, sono stati trovati divise e tesserini della guardia di finanza, nonché porta tessere dei carabinieri. Le ipotesi di truffa ai danni delle procure di Chieti e di Lecce farebbero riferimento ad episodi avvenuti quest'anno. L'uomo, secondo quanto accertato dagli investigatori romani, si sarebbe spesso spacciato per capitano delle fiamme gialle ed in un'occasione, a Chieti, con questo pretesto non avrebbe pagato il conto di un albergo, sostenendo che avrebbe provveduto il comando locale della guardia di finanza. In altre occasioni Preite avrebbe esibito un falso tesserino del SISMI.

Difficile capire anche perché Preite, nel suo colloquio con i magistrati romani, si sia lasciato andare ad affermazioni facilmente smentibili, come quella che il body guard Fabrizio Quattrocchi - rapito ed ucciso in Iraq lo scorso anno - in realtà sia vivo. L'ingegnere informatico ha sostenuto di aver appreso la circostanza riguardante Quattrocchi nell'ambito delle sue consultazioni di siti web. Va ricordato che sui resti di Quattrocchi ci furono due esami del Dna che non lasciarono dubbi sulla morte del vigilante rapito assieme con Salvatore Stefio, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana: uno disposto dalla Procura di Roma, l'altro eseguito da un'equipe medica scelta dalla famiglia Quattrocchi.

Dal canto suo il presunto ingegnere elettronico ha chiesto un confronto davanti all'autorità giudiziaria, oppure un incontro riservato, con Giuliana Sgrena "per unire le forze a beneficio della verità".

ASSASSINIO CALIPARI (2):

UN MESE DOPO

ANCHE L'INCHIESTA E' MORTA

In pochi, forse, credevano in un'inchiesta seria e dettagliata sulla morte di Nicola Calipari. A poco più di un mese di distanza anche i più in buona fede (per non dire ingenui) si devono ricredere: l'inchiesta è morta.

Anche se le autorità americane continuano a ripetere che le conclusioni sono vicine, come credere all'imparzialità di un'inchiesta che finora ha solo messo ostacoli alla magistratura italiana, un'inchiesta che si è rifiutata perfino di mettere l'auto sulla quale Calipari viaggiava con la Sgrena, con Andrea Carpani e forse con una quarta persona a disposizione degli investigatori italiani?

Se qualcuno nutrisse ancora qualche dubbio che l'inchiesta possa concludersi con un verdetto diverso dall'incidente senza responsabili, è bene che sappia quanto è accaduto il 5 aprile scorso a Bruxelles dove il deputato europeo della sinistra unita, Vittorio Agnoletto, ha chiesto conto al vice segretario di Stato USA Robert Zoellick, presente nella capitale belga per un'audizione parlamentare, della dinamica di quanto accaduto al momento della liberazione di Giuliana Sgrena.

Agnoletto ha chiesto, tra l'altro, a Zoellick quali sono i risultati della perizia realizzata dalla commissione d'inchiesta USA sull'auto sulla quale è stato ucciso Nicola Calipari?; quando i magistrati italiani potranno recarsi a Baghdad per realizzare a loro volta una perizia sull'auto?; quali sono i tempi previsti per la conclusione dell'inchiesta americana?

Ed ecco le risposte di Zoellick: "La morte di Calipari è stata una tragedia, percepita anche negli USA come un infelice tragedia. Non so che cosa è successo, nè la causa, non sappiamo come la Sgrena è stata rilasciata. C'erano seri rischi anche per il comportamento degli iracheni...se rilasciano una persona, magari poi ne rapiscono altre...tutte le informazioni devono venire alla luce e le indagini le realizziamo con gli italiani come stiamo facendo con i Bulgari per i rapimenti che li riguardano. L'Iraq è un posto pericoloso e noi vogliamo che gli iracheni vivano bene come gli italiani".

Ogni commento è superfluo.

ASSASSINIO CALIPARI (3):

PROSCIOLTI MILITARI USA

CHE UCCISERO GENITORI DI CINQUE FIGLI

La notizia, ignorata dalle televisoni, è finita nelle pieghe dei giornali italiani.

Il 20 marzo scorso sono stati prosciolti da ogni accusa i soldati di un'unità dell'Esercito americano che lo scorso gennaio uccisero due genitori iracheni sotto gli occhi dei cinque figli della coppia.

La tragedia al checkpoint sarebbe rimasta una delle tante destinate alle statistiche degli errori dei militari in Iraq, se all'episodio non avesse assistito un fotografo dell'agenzia Getty Images, le cui foto dei bambini in lacrime usciti dall'auto piena del sangue dei genitori hanno fatto il giro del mondo.

Gli uomini della Compagna Apache che aprirono il fuoco quella sera sono stati ritenuti non responsabili per l'accaduto, al termine di un'indagine dello U.S.Army. Il conducente dell'auto, Hussein Hassan, rimasto ucciso con la moglie Kamila, secondo l'inchiesta, stava viaggiando a forte velocità per arrivare a casa prima del coprifuoco.

Al ritorno dell'unità in caserma il comandante, il cap. Thomas Seibold, chiese chi aveva sparato e disse che ci sarebbe stata un'indagine e che "l'unica scelta è essere onesti, perché non abbiamo fatto niente di sbagliato". Sei militari si sono fatti avanti.

I bambini vivono ora a Mossul, nella casa di una sorella maggiore sposata. Il capitano Seibold è stato a trovarli nei giorni scorsi e ha pianto di fronte a loro: secondo Newsweek, il traduttore lo ha esortato a lasciare in fretta la casa, perché la sua presenza era tollerata solo perché c'erano i bambini, ma la gente del posto dava pericolosi segni di grande irritazione.

PANTANO IRAQ:

SI ALLUNGA IL CAPITOLO

DELLE TORTURE

Il lungo capitolo degli abusi compiuti da soldati americani su prigionieri iracheni si arricchisce di altre 1200 pagine: tante ne sono state diffuse dal dipartimento della Difesa USA che in precedenza le aveva passate, a condizione di mantenere il massimo riserbo, solo all'American Civil Liberties Union (ACLU).

Gran parte di queste pagine si riferisce ad un video girato a Ramadi e intitolato Ramadi madness (follia a Ramadi). L'autore sarebbe un soldato della Florida National Guard, di stanza a West Palm Beach in Florida.

Nel filmato sono contenute diverse sequenze che il Pentagono si limita a definire "inappropriate".

In una sequenza si vede un giovane iracheno colpito alla testa con il calcio del fucile, in un'altra un prigioniero ferito all'addome con un colpo d'arma da fuoco viene preso a calci a beneficio della telecamera. In un'altra scena ancora, un berretto verde posiziona il  cadavere di un iracheno per fare in modo che sembri salutare il tele-obiettivo. Il soldato in questione si è difeso, affermando di essersi limitato a disporre il cadavere perché fosse poi preso in consegna dalle squadre di raccolta, aggiungendo che nel veicolo dell'uomo era stato rinvenuto un razzo.

I casi contenuti nel video sono una piccola parte dei centinaia esempi di abusi e illegalità che i gruppi per le libertà e i diritti civili americani, a partire proprio dall'ACLU, vogliono portare davanti ai giudici.

Il Pentagono da parte sua professa di voler fare chiarezza su tutti i casi di violazione dei diritti dei cittadini, ma sino ad ora su 13 indagini di cui l'Esercito ha dato conto, nessuna si è conclusa con accuse di abusi a carico dei soldati.

Secondo Jameel Jaffer, avvocato in forza all'ACLU, i nuovi documenti "confermano che gli abusi dei detenuti in Iraq e Afghanistan erano molto più diffusi di quanto non si sapesse sino ad ora. In un piccolo numero di casi sono stati puniti soldati di grado basso. Ma alla luce delle centinaia di violazioni dei diritti che sono avvenute non si capisce come mai sino ad ora non sia stato punito alcun ufficiale di più alto grado".

Il comandante della Florida National Guard, il magg. Joseph Lyon, ha dichiarato al South Florida Sentinel che il video ha portato a misure disciplinari nei confronti di alcuni soldati, ma non ha fornito maggiori dettagli. "Il video è decisamente inappropriato - ha aggiunto - tuttavia eravamo in una situazione di grande stress e finché non ci sei in mezzo, non puoi capire. Troppo facile fare poi i giudici dal salotto della propria casa. Puoi pensare che in una determinata situazione ti comporterai in un certa maniera, ma finche' non ci sei davvero, non lo puoi sapere".

PANTANO IRAQ (2):

TUTTO CHIARO SULLA MORTE

DEL PARA' ITALIANO?

Un colpo solo, alla testa. Esploso dalla sua stessa arma che si era inceppata.

Questa la versione ufficiale sulla morte del sergente paracadutista Salvatore  Marracino, morto a Nassiriya il 15 marzo durante un'esercitazione di tiro. Marracino aveva solo 28 anni, ma era un militare esperto, in servizio in uno dei reparti d'elite dell'Esercito italiano. Anche per questo la sua morte improvvisa, in un'attivita' addestrativa di assoluta routine, ha lasciato increduli coloro che lo conoscevano bene.

Arruolatosi come volontario nell'ottobre del '97, per otto anni era stato impegnato in diverse missioni, anche rischiose, come quella recente in Afghanistan. Aveva anche superato le difficili selezioni previste per entrare nel 185/o RAO, il Reggimento acquisizione obiettivi della Brigata Folgore.

I compiti affidati ai paracadutisti del RAO sono molteplici, ma tutti delicatissimi: si tratta di raccogliere informazioni su obiettivi nemici e passarle al proprio comando. Più in generale, si può parlare di "ricognizione in aree sensibili". "Un'attività - spiegano i militari - che si svolge principalmente in territorio ostile, in piccoli nuclei autosufficienti che agiscono in modo isolato".

Marracino, un giovane sportivo ed atletico, aveva superato prove impegnative per entrare a far parte di questa cerchia ristretta di militari. Specialisti nelle tecniche di "infiltrazione ed esfiltrazione", in grado di muoversi in area operativa "fino a 8-10 giorni senza rifornimenti", capaci di "sottrarsi alla cattura, evadere e fuggire da un'area controllata dal nemico", ed anche di sopportare interrogatori "pressanti".

A Nassiriya il sergente Marracino era arrivato da venti giorni. Esattamente dal 25 febbraio. Era il vice comandante di un distaccamento acquisizione obiettivi del RAO che ha come compiti soprattutto ricognizioni a scopo informativo a medio e lungo raggio e di sorveglianza dell'area di responsabilità del contingente italiano. Insomma un lavoro in prima linea. E certamente rischioso.

Eppure - ed ha dell'incredibile - a costargli la vita è stato un colpo esploso per errore durante una normalissima "attività addestrativa, pianificata da tempo - come spiegano alla Difesa - per il mantenimento delle capacità operative".

L'incidente è avvenuto alle 13 locali, le 11 in Italia, nel poligono Garibaldi, ad una decina di chilometri dal quartier generale italiano di Camp Mittica, alla periferia di Nassiriya.

Che cosa sia successo esattamente non è ancora chiaro. Quello che è certo è che Marracino impugnava una Minimi, un'arma leggera di reparto che però viene spesso usata dagli uomini delle Forze speciali anche per uso individuale. E la Minimi, di solito molto affidabile, all'improvviso si è inceppata. Marracino ha cercato di risolvere da solo il problema e - questa la versione ufficiale - mentre maneggiava l'arma in questo frangente, è partito un colpo che l'ha centrato alla testa.

Le condizioni del giovane sergente sono sembrate subito disperate. "Immediatamente dopo l'incidente - hanno spiegato allo Stato maggiore della Difesa - Marracino è stato trasferito in elicottero all'ospedale militare da campo di Camp Mittica. Poi all'ospedale di Kuwait City. Qui è stato sottoposto ad un intervento chirurgico d'urgenza, ma non c'è stato niente da fare". Marracino è morto alle 14:30, ora italiana.

Secondo Falco Accame, presidente dell'Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate (Anavafaf) la versione fornita dalle autorità sulla morte del sergente Salvatore Marracino è "poco chiara".

"Nelle esercitazioni di addestramento al tiro, nei poligoni - ha spiegato Accame - vige la pratica del "colpo di prova" e dell'"ispezionarm". Se per qualche ragione si era verificato un inceppamento dell'arma, doveva intervenire immediatamente il responsabile delle esercitazioni e il sergente doveva consegnare l'arma per l'ispezione. Se ciò non è stato fatto - ha sottolineato - è stata violata una regola fondamentale di sicurezza che vige per le esercitazioni al tiro".

Peraltro, prosegue il presidente dell'associazione, "è poco spiegabile l'inceppamento che qualche volta si verifica nei poligoni con proiettili di esercizio che hanno una componente di plastica. Questa componente, per il forte calore che si può sviluppare nell'arma, può fondersi e causare l'inceppamento. Ma è altamente improbabile che in Iraq vengano usati proiettili da esercizio".

PANTANO IRAQ (3):

LA COMPAGNA DI UN CIVILE MORTO A NASSIRIYA

HA GLI STESSI DIRITTI DI UNA MOGLIE

Pur non essendo sposata, la compagna di Stefano Rolla, uno dei civili uccisi nell'attentato del 12 novembre 2003 a Nassiriya, ha gli stessi diritti di una moglie.

Lo stabilisce una sentenza del Tar del Lazio che, accogliendo il ricorso di Adele Parrillo, compagna di Rolla, ordina al ministero della Difesa di far accedere la donna ai documenti riguardanti il lungometraggio che il compagno stava realizzando in Iraq.

La Parrillo ha chiesto anche un risarcimento alla Difesa per la morte di Rolla: a suo avviso, infatti, non sarebbero state adottate le misure necessarie a prevenire attentati. Ma questo aspetto non è stato oggetto della sentenza del Tar.

Rolla, spiega la sua compagna, si trovava a Nassiriya per realizzare un documentario dal titolo Babilonia terra tra due fiumi - Guerrieri di pace (di cui la signora Parrillo era coautrice di soggetto e sceneggiatura), "patrocinato dal ministero della Difesa, che aveva anche autorizzato le riprese in Iraq". Dopo l'attentato, la compagna del regista aveva chiesto al ministero della Difesa di poter accedere a tutti gli atti in possesso dello stesso ministero in merito alla produzione del film. Ma la Difesa aveva negato l'accesso, affermando che lo status di convivente non lo legittimava. La Parrillo ha fatto quindi ricorso al Tar, che ha annullato il provvedimento del ministero della Difesa ed ha ordinato allo stesso di consentire alla donna - entro 30 giorni - l'accesso a tutti i documenti richiesti.

Il Tribunale ha affermato che il diritto non può più ignorare l'esistenza e la diffusione della cosiddetta famiglia di fatto e che chi nega l'equiparazione tra matrimonio e convivenza è legato a un modello "di promanazione cattolico-integralista omai datato e non più rispondente a principi, ora largamente affermati, di laicizzazione politico-sociale, avulsi da preconcetti di ispirazione dogmatica o settaria".

Nel suo ricorso Adele Parrillo lamenta anche la mancata adozione, da parte dell'amministrazione militare, delle necessarie misure di tutela contro il rischio attentati a Nassiriya, attribuendo così alla Difesa la responsabilità della morte di Rolla. In base a ciò, la signora ha chiesto un risarcimento.

PANTANO IRAQ (4)

UN SONDAGGIO

APcom/IPSOS

Un episodio ingiustificabile di cui sono responsabili i militari americani. E' questa la spiegazione che la maggioranza degli italiani, il 49%, dà della vicenda che ha portato all'uccisione, sotto il fuoco americano, del funzionario del SISMI Nicola Calipari, coordinatore dell'operazione di intelligence che ha portato alla liberazione di Giuliana Sgrena.

Il sondaggio Apcom-Ipsos fa emergere come il 70% degli italiani sia convinto che il governo americano non dirà la verità e non fornirà elementi utili per capire come sono andate realmente le cose e, sempre il 70% - con un forte aumento rispetto alle percentuali emerse un anno fa alla stessa domanda - si proclama per il ritiro dall'Iraq.

Guardando alle risposte del campione, salta agli occhi come sia soprattutto la cosiddettà upper class, di età compresa tra i 31 e i 45 anni (è il 59% del campione) a ravvisare senza ombra di dubbio una responsabilità americana: tra i sostenitori di questa tesi il 58% ha in tasca una laurea, il 60% svolge la libera professione, è imprenditore o dirigente, e il 56% risiede principalmente nelle regioni del centro sud.

Quanto è accaduto sembra aumentare la distanza tra centro destra e centro sinistra in merito all'intervento militare in Iraq: gli elettori di centro sinistra propendono fortemente per una responsabilità diretta dell'esercito americano (addirittura il 67% di coloro che alle scorse elezioni europee hanno votato per l'Ulivo), mentre l'elettorato di centro destra crede in misura maggiore nell'errore umano e nella sfortuna.

La versione della fatalità è supportata dal 31% degli intervistati per i quali la morte di Calipari "è stata un tragico errore". In questo gruppo si nota una discreta prevalenza di pensionati (40%), di diplomati (39%) che lavorano soprattutto (38%) come commercianti o artigiani e di casalinghe (36%). La maggioranza abita nelle regioni del Nord Ovest e alle Europee del 2004 ha votato prevalentemente (41%) centrodestra.

Solo il 7% crede che la morte di Nicola Calipari sia da imputare ai servizi italiani e il 13% non risponde.

PANTANO IRAQ (5):

AUSTRALIANI BOCCIANO

INVIO NUOVE TRUPPE

La decisione del premier conservatore australiano John Howard di mandare in Iraq altri 450 soldati, in sostituzione di truppe olandesi ritirate, raddoppiando così le forze australiane in quel paese, ha il sostegno del solo 37% degli elettori.

Lo rivela un sondaggio pubblicato dal Sydney Morning Herald che per la prima volta in sette mesi vede l'opposizione laburista superare nei consensi la coalizione conservatrice.

Secondo il sondaggio della AC-Nielsen, condotto verso la metà di marzo, un'eventuale futura escalation dell'impegno australiano in Iraq - un'opzione che Howard non esclude - avrebbe il sostegno di un solo australiano su 10.

CASO ALPI-HROVATIN:

"A NOVEMBRE NOVITA'",

DICE LA MADRE DI ILARIA

"La morte di Ilaria è ancora un mistero, è stata creata da un anno una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Carlo Taormina, assistito ed aiutato solo dal centrosinistra, che sta facendo un grande lavoro per scoprire la verità sull'uccisione di Ilaria e Miran. A novembre dalla commissione di inchiesta si saprà la verità".

Sono le parole della madre di Ilaria Alpi, la giornalista assassinata nel marzo del 1994 in Somalia assieme all'operatore che era con lei, Miran Hrovatin.

Noi ci auguriamo che le speranze della madre di Ilaria non vengano smentite. Ma il lavoro della commissione d'inchiesta sembra procedere tra gravi contraddizioni. Ad inquietarci è una delle ultime uscite del sempre loquace Taormina. Eccola: "Ilaria Alpi era intenzionata ad indagare su Chisimaio, la zona in cui Osama Bin Laden stava impiantando un campo di addestramento per uomini da inviare in Afghanistan".

"A Ilaria Alpi - ha aggiunto l'avvocato/deputato - non importava nulla del contingente italiano. Non posso dire se effettivamente ha avuto accesso a informazioni su Chisimaio, ma certamente da parte di chi l'ha uccisa si è creduto questo. C'è stata sicuramente la presenza dell'integralismo islamico".

Non va dimenticato che la "pista islamica" fu una delle prime indicate dal gen. Fiore, all'epoca comandante del contingente italiano in Somalia. Quelle dichiarazioni furono definitie un depistaggio. Perché adesso Taormina le rispolvera?

MAFIA:

LA BEFFA DI PROVENZANO

FINISCE IN SCARTOFFIE

E' stata una vera e propria beffa quella delle cure mediche a carico della ASL 6 di Palermo a Gaspare Troia, nome sotto il quale si è nascosto il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano. Una vera e propria beffa al Servizio sanitario nazionale.

Riepiloghiamo i fatti:

-       Diffusasi la notizia che "Binnu u Tratturi" si era fatto operare alla prostata in una clinica svizzera con spese a carico dello Stato italiano, lunedì 28 febbraio vengono sequestrati numerosi incartamenti negli uffici della ASL 6.

-       Martedì 1 febbraio la Regione Siciliana diffonde una dichiarazione ufficiale firmata dall'assessore regionale alla Sanità, Giovanni Pistorio: "Dal 1991 ad oggi, negli archivi dell'ispettorato regionale sanitario incaricato di autorizzare i ricoveri fuori Regione o all'estero dei cittadini siciliani, non esiste alcuna pratica intestata a un Troia".

-       Mercoledì 2 febbraio, nel corso del question time alla Camera il ministro della Salute, Girolamo Sirchia, spiega: "Gaspare Troia è stato curato in Francia attraverso un modello E 111 e il servizio sanitario ha pagato una fattura di 1958,45 euro perché la Ausl 6 di Palermo, che avrebbe dovuto dare il via libera o impugnare il pagamento non ha risposto entro 90 giorni".

Insomma il boss si è infilato nelle solite beghe della burocrazia nostrana per ottenere quello che voleva: soldi per curarsi.

Ma andiamo avanti nella farsa tutta italiana: stando ai fatti, Sirchia avrebbe smentito la regione siciliana. Ma l'assessorato di Palermo spiega: per ottenere il modello E111, il documento che garantisce la copertura sanitaria nei Paesi dell'Unione, il signor Troia, come qualsiasi altro cittadino, non ha dovuto far altro che recarsi all'Asl di residenza (e non alla Regione) e riceverlo "a vista". Una volta all'estero, il paziente, che si trova in emergenza e ha bisogno di cure, esibisce il modello, certificando così che si tratta di un assistito italiano. A questo punto il ministero richiede alla Ausl (e non alla Regione) il via libera per il rimborso dell'operazione, ed è prassi che, se non ci sono rilievi entro 90 giorni, la pratica vada a buon fine. In nessuno di questi passaggi la Regione Siciliana sarebbe dovuta intervenire, ha sottolineato l'assessorato, confermando la bontà di quanto risulta agli uffici dell'ispettorato. E, dire che un paziente all'estero ha usufruito di un modello concesso da una Asl per accedere a cure sanitarie è cosa ben diversa dal sostenere che la Regione ha pagato gli interventi.

Pur non essendo parte in causa la Regione Siciliana attiva le procedure di controllo presso la Asl 6. Ne emerge che le fatture sono due e non una. La prima è di 1958,45 come riferito dal ministro ed è relativa non a una operazione ma ad esami clinici e tre giorni di ricovero dal 7 all'11 luglio del 2003, riguardanti il signor Gaspare Troia. La seconda, di soli 14,60 euro, per una medicazione alla signora Marianna Troia moglie di Gaspare.

Da una informativa della stessa clinica di Marsiglia, poi, si apprende che Gaspare Troia, fornaio di Villabate in provincia di Palermo, è andato ad operarsi di prostata nel mese di ottobre nello stesso periodo della medicazione alla moglie. Quella operazione, però, l'ha pagata direttamente sul posto senza coinvolgere il servizio sanitario italiano.

Restano molti dubbi da sciogliere. Specie sulle coperture di cui continua a godere uno come Binnu. L'unica certezza è che, dalla sua latitanza, Provenzano è il solo a ridere.

Fonte: www.ilvelino.it

MAFIA (2):

"PENTITA" DICE DI AVER VISTO

PROVENZANO VESTITO DA VESCOVO.

NESSUNO LO CHIAMA PIU' "ZIO BINNU"

Abito talare, fascia viola alla vita e berretta episcopale in testa: così il boss mafioso Bernardo  Provenzano si sarebbe presentato a un summit di mafia avvenuto tra il 1991 e il 1992.

A raccontarlo, secondo quanto scrive Il Giornale di Sicilia, è la "collaboratrice di giustizia" Giusy Vitale, sorella del boss di Partinico, ai pm della Dda di Palermo. La Vitale, dopo l'arresto del fratello, è una delle pochissime donne che ha assunto il ruolo di boss, forse l'unica, e che è stata ammessa alla presenza dei capi della commissione di Cosa nostra, in veri e propri summit di mafia.

Secondo il quotidiano palermitano, Provenzano vestito da vescovo è solo uno dei tanti episodi descritti dalla "pentita", ma i primi verbali delle deposizioni saranno depositati nei prossimi giorni e finora sono circolate solo indiscrezioni.

Per un altro "pentito", Provenzano adesso non verrebbe più chiamato "zio Binnu" dai suoi uomini. Secondo Mario Cusimano, che collabora con gli investigatori dal 25 gennaio scorso, ora Provenzano viene chiamato "il vecchio", per evitare che gli investigatori, eventualmente in ascolto, capiscano. Dopo questa operazione, il nomignolo, probabilmente, cambierà ancora.

Sempre secondo le "confessioni" di Cusimano, Provenzano sarebbe accudito dalla famiglia di Villabate e avrebbe subito una seconda operazione alla prostata in una struttura sanitaria del palermitano.

Gli investigatori sono, adesso, a caccia dei medici che lo avrebbero curato, ma anche di qualcos'altro. Sempre Cusimano, infatti, avrebbe rivelato l'esistenza di un arsenale della famiglia mafiosa di Villabate. Almeno 20 pistole e due mitragliette acquistate all'estero e fatte arrivare durante una complessa operazione di contrabbando. Due di queste armi avrebbero già sparato per uccidere Salvatore Geraci, pregiudicato, a poche settimane dalla scarcerazione dopo una condanna per mafia, assassinato il 5 ottobre scorso a Palermo per avere tentato di rientrare nel circuito di manomissione degli appalti senza il permesso del capo.

MAFIA (3):

COMINCERA' IL 3 MAGGIO

IL PROCESSO A MORI E "ULTIMO"

Il processo al direttore del SISDE Mario Mori e al colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, meglio noto come il "capitano Ultimo", imputati di favoreggiamento aggravato di Cosa nostra, inizierà il 3 maggio.

Lo ha deciso con un atto straordinario il presidente del Tribunale di Palermo, Giovanni Puglisi, che ha indicato nella terza sezione penale la sede del processo. Il 7 aprile scorso, il il giudice indicato, Silvana Saguto, si è dichiarato incompetente, rinviando i due imputati a un altro tribunale, a composizione collegiale.

Intanto le polemiche su questa vicenda continuano. In un intervista al settimanale Gente, il sostituto procuratore di Palermo, Antonino Ingroia, ha sostenuto che ci furono "ragioni di Stato" dietro la mancata perquisizione del covo di Totò Riina. Si tratta di un sospetto grave, dal momento che Ingroia indaga su quell' episodio dal 1997 e che per tre volte ha chiesto il non luogo a procedere.

Nell'intervista il magistrato sostiene anche che la condotta di Mori e De Caprio "agevolò la mafia per altre ragioni. Forse ragioni di Stato non chiarite, rimaste oscure".

TERRORISMO ITALIANO:

PER BANELLI E PROIETTI

UNA CONDANNA SENZA SCONTI

A quasi sei anni dall'omicidio di Massimo D'Antona, ucciso dalle nuove Brigate Rosse il 20 maggio 1999 con un colpo di pistola alla testa in via Salaria a Roma, sono arrivate le prime condanne: ergastolo per Laura Proietti, cameriera romana di 32 anni e 20 anni di reclusione per Cinzia Banelli, tecnico di radiologia, grossetana di 42 anni e madre di un bambino di nove mesi, ufficialmente "pentita".

La sentenza del gup Luisanna Figliolia, emessa a conclusione di un'udienza svoltasi con il rito abbreviato, è solo il prologo al processo in corte di assise che si sta celebrando contro altri 15 imputati accusati dei fatti cominciati con la costituzione della banda armata e culminati con l'agguato all'allora consulente del ministero del Lavoro.

La sentenza del gup, oltre a rendere vana, dal punto di vista premiale, la recentissima "dissociazione" dalle BR formalizzata da Laura Proietti, sconfessa piuttosto nettamente soprattutto il ruolo della stessa Banelli, sia "collaboratrice di giustizia" e potrebbe allontanare anche la concessione degli arresti domiciliari per la ex "compagna So", istituto necessario per l'attuazione del programma di protezione a cui le procure di Roma e Bologna (dove è imputata per l'omicidio Biagi) hanno dato il nulla osta.

Per Cinzia Banelli, la procura di Roma rappresentata dai pm Franco Ionta e Pietro Saviotti aveva chiesto 14 anni, ritenendo questa una pena congrua al contributo di informazioni fornito dalla stessa ex brigatista. A questo punto lo status di "collaboratore" è tornato in discussione dal momento che alla Banelli sono stati negati anche gli arresti domiciliari.

Pienamente accolta dal gup, invece, la richiesta dell'ergastolo per Laura Proietti che ha ottenuto come sconto derivante dal rito alternativo la sola esclusione dall'isolamento carcerario diurno.

Cinzia Banelli e Laura Proietti sono state condannate anche a risarcire i familiari di Massimo D' Antona e del sovrintendente Emanuele Petri. Quattrocentocinquantamila euro è la cifra che ciascuna delle due brigatiste dovrà pagare a titolo di risarcimento.

Secondo l'avv. Grazia Volo, legale di Cinzia Banelli, si tratta di "una sentenza molto grave che prende in scarsa considerazione l'impostazione  della procura e il valore della collaborazione, applica le attenuanti al minimo e dà valore alla volontà degli irriducibili di non fare concessioni". Secondo il legale sono stati fatti "riconoscimenti di sconto di pena di gran lunga maggiori per i pentiti di mafia. Sono state date attenuanti in maggior misura per delitti più gravi, ad esempio, nella vicenda Moro, la pena base per i pentiti fu di 12 anni".

TERRORISMO ITALIANO (2):

CASTELLI E CASIMIRRI

Il ministro della Giustizia Roberto Castelli sta giocando l'ultima carta per tentare di far scontare al brigatista Alessio Casimirri - condannato all'ergastolo per l'assalto di via Fani in cui morirono gli uomini della scorta di Aldo Moro - almeno qualche anno di carcere, seppure nel paese che lo ha adottato.

Il Guardasigilli ha chiesto alle autorità nicaraguensi di arrestare l'ex brigatista e di fargli scontare l'ergastolo in una prigione locale, visto che la corte Suprema del Nicaragua ha  sempre respinto ogni ipotesi di aprire una procedura di estradizione, dal momento che Casimirri è da 17 anni cittadino nicaraguense.

Casimirri più volte si è detto preoccupato dell'ipotesi di essere rapito dai servizi segreti italiani e ricondotto in Italia. Cosa che fecero i francesi e gli spagnoli, alcuni anni fa, con alcuni dei loro terroristi, che rifugiatisi in quel paese avevano ottenuto la cittadinanza.

La popolarità dell'ex brigatista è aumentata nel paese centroamericano lo scorso anno: sa vendere bene la propria immagine di ex rivoluzionario perseguitato e non mostra problemi a farsi fotografare sulle prime pagine del Nuevo Diario, quotidiano vicino ai sandinisti, oltre che con il papa Paolo VI, anche con una bambina down adottata quando i suoi due figli hanno superato i 16 anni di età. "Una prova di quanto sia buono e umano", sostengono i suoi avvocati.

Per gli altri ex terroristi rifugiati in Nicaragua, Casimirri è sempre stato quasi inavvicinabile: non partecipa mai ai periodici incontri fra i rifugiati di tre o quattro paesi. Non ha rapporti costanti neppure con l'altro terrorista residente in Nicaragua, quel Manlio Grillo che avrebbe dovuto scontare in Italia 15 anni di carcere, condanna inflitta per il rogo di Primavalle in cui morirono i fratelli Mattei. Frequenta ancora meno gli altri rivoluzionari: Almachiara D'Angelo fa la sociologa, deve scontare nove anni e faceva parte delle Unità combattenti comuniste; Guglielmo Gugliemi, fondatore delle UCC, medico e allevatore, accusato di avere importato con il suo yacht armi per le bande armate, lavora a progetti sanitari quasi tutti pagati dagli americani. La D'Angelo e Guglielmi non hanno più molto da temere, infatti presto per entrambi la latitanza terminerà, in quanto vi hanno trascorso il doppio della pena alla quale erano stati condannati. Potranno chiedere ai magistrati di revocare gli ordini di cattura e tornare quindi in Italia.

Casimirri al Nuevo Diario ha raccontato l'affettuosità di Paolo VI nei suoi confronti: lo conosceva bene da quando, ancora vescovo, aveva celebrato le nozze dei suoi genitori. "Conservo quelle foto e quei ricordi come reliquie", ha detto al quotidiano sandinista. E fra queste foto, quella che lo ritrae nell'appartamento privato del papa in Vaticano fra Paolo VI e i suoi genitori il giorno della sua prima comunione.

A questo punto, è impossibile non andare con la memoria a 26 anni fa, alle parole di quel papa che per salvare la vita di Aldo Moro invocò un gesto di umanità da parte degli "uomini delle Brigate Rosse". Chissà, forse il pontefice sapeva quale dei brigatisti avrebbe potuto ascoltarlo di più. Ma Casimirri, sei giorni dopo la strage di via Fani (alla quale partecipò con la moglie), era già in fuga: Libia, Francia, Cuba e l'ospitale Nicaragua, accolto dal ministro dell'Interno dell'epoca, il padre gesuita Tomas Borge. Ora, la posizione di Casimirri si è ulteriormente rafforzata sotto l'aspetto giuridico: egli sa che può contare su una magistratura formata e insediata dai sandinisti e che mai consentiranno la sua estradizione.

E per questo oggi può tranquillamente sostenere che la sua eventuale estradizione sarebbe "una vera pagliacciata del governo". Comunque all'ipotesi si è preparato, lo sanno tutti quelli che hanno modo di frequentarlo: sia alla Carretera sur, dove abita al tredicesimo chilometro e dove c'è anche il suo ristorante, La cueva del buzo, sia all'Ostional, una bella insenatura al sud del paese, verso il Costarica. E' difeso da un doppio sistema: guardie armate e gente del posto pronta a difenderlo. I pescatori di Ostional, poi, sono tutti con lui, esperto subaqueo: ha insegnato loro nuovi metodi di pesca e ha valorizzato la zona dove fra l'altro, in una trentina di ettari di sua proprietà, pensa di realizzare un insediamento turistico.

TERRORISMO ITALIANO (3):

DUE FILM SULL'OMICIDIO DI GUIDO ROSSA

Giuseppe Ferrara a maggio comincerà le riprese di Quando le cose bisogna farle si fanno, un film che racconterà in parallelo le vite di Guido Rossa e di Roberto Dura, il brigatista rosso che fece parte del commando che uccise l'operaio comunista dell'Italsider e che fu ucciso l'anno successivo, assieme ad altri tre compagni, nell'assalto dei carabinieri al covo di via Fracchia.

Il primo sarà interpretato da Massimo Ghini, il secondo sarà Gian Marco Tognazzi (nel cast anche dell'atteso Romanzo criminale di Michele Placido, ispirato alle gesta della banda della Magliana).

Figlio di un minatore e di una balia, in fabbrica da quando aveva 14 anni, Guido Rossa era un sindacalista impegnato e rigoroso. Un uomo "duro come la roccia che amava scalare" (a trent'anni partecipò anche ad una spedizione sull'Himalaya), che leggeva Marcuse e Garcia Lorca. E che, a 44 anni, pagò con la vita una scelta di coerenza: quella di aver denunciato un collega, Francesco Berardi, implicato nelle BR. Per i terroristi l'operaio diventò "la spia rossa", uno da colpire per "educarne cento". E firmò la sua condanna. 

Il film mette a confronto diretto le rispettive vicende di Rossa e Dura, nei mesi precedenti al loro tragico incontro.

All'alba del 24 gennaio 1979 in una via del quartiere Oregina, a Genova, il brigatista rosso Roberto Dura è appostato con altri due compagni in attesa che il sindacalista e operaio dell'Italsider Guido Rossa esca di casa per andare al lavoro. Tre mesi prima Rossa ha denunciato un suo collega di lavoro, Francesco Berardi, per aver diffuso volantini delle BR all'interno della fabbrica. Arrestato e processato per direttissima, Berardi è stato condannato a 4 anni e mezzo di carcere. Berardi si ucciderà. Per questo, la mattina del 24 gennaio, Rossa viene gambizzato come aveva stabilito il comitato esecutivo dei terroristi. Ma Dura ha un ripensamento. Torna indietro e uccide Rossa. E nella storia del brigatismo, che l'anno precedente ha eliminato Moro dopo aver sterminato la sua scorta, questo episodio ha un significato particolare. Per la prima volta un rappresentante della classe che le BR vorrebbero al potere si è ufficialmente e duramente opposto ai loro disegni; e per la prima volta questo rappresentante del proletariato viene dai brigatisti ferocemente assassinato.

Con l'omicidio di Rossa le BR firmano la loro morte politica.

Il film nasce sotto l'egida della CGIL che lo ha inserito nel programma di iniziative per il centenario del Sindacato. Sarà autoprodotto in formula di compartecipazione con il contributo di autori, attori, tecnici, associazioni e società.

Anche Mimmo Calopresti sta preparando un film su Guido Rossa. "Insieme a Fabrizio Mosca e a Monica Zapelli, rispettivamente produttore e sceneggiatrice dei 'Cento passi' di Marco Tullio Giordana, stiamo preparando un film che racconti l'omicidio di Guido Rossa, l'attentato brigatista che ha segnato una svolta negli anni di piombo", ha detto Calopresti in un'inrtervista alla Rivista del Cinematografo.

"Guido Rossa - ha spiegato il regista - era tutto ciò che uno si aspetta da un comunista. Una persona seria, integra, impegnato sul lavoro e nella solidarietà verso gli altri, capace di costruirsi un solido spazio vitale anche al di fuori del lavoro che amava. Era contento di lavorare in fabbrica. Viene ucciso da altri comunisti che pensano di essere anch'essi veri comunisti. E' un altro mistero, una tragedia pesante e senza rimedio, che mi affascina cercare di raccontare". Già in passato, con La seconda volta, nel 1995, Calopresti si era occupato di terrorismo.

OMICIDIO CALABRESI:

ALTRI DUE ANNI DI DOMICILIARI

PER BOMBRESSI

Il Tribunale di Sorveglianza di Genova ha prolungato di due anni gli arresti domiciliari per Ovidio Bompressi in considerazione del suo stato di salute.

Bompressi era stato condannato a 19 anni e nove mesi con sentenza definitiva della Corte di Cassazione per l'omicidio del commissario Luigi Calabresi ed era entrato in carcere, a Pisa, il 24 gennaio del 1997, ma da diverso tempo è agli arresti domiciliari.

Degli altri condannati, Adriano Sofri è in carcere a Pisa e Giorgio Pietrostefani è latitante a Parigi. Il "pentito" Leonardo Marino non ha nmai scontato un giorno di galera.

FATTI DI GENOVA:

POLIZIOTTO INDAGATO DICE:

"LA PAROLA D'ORDINE ERA REPRESSIONE"

"Il G8 di Genova ha significato un cambiamento di 360 gradi nei comportamenti della polizia, soprattutto in tema di ordine pubblico: mentre la parola d''ordine dal 1981, da quando cioè vi fu la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia, è stata prevenzione, la sensazione che invece durante il G8 la parola d'ordine fosse repressione era abbastanza netta".

Lo ha affermato Aldo Tarascio, poliziotto e sindacalista del SILP, indagato per abuso di autorità per i fatti accaduti a Genova nella caserma di Bolzaneto, in un'intervista a Controcorrente, il settimanale di Sky TG24.

"Quando non ero ancora indagato - ha spiegato Tarascio - dissi che nulla si muove in ordine pubblico che il politico non sappia o non voglia. A Genova si dovevano ottenere probabilmente determinati obiettivi, determinati risultati. Non si capisce la ratio di tante cose fatte e decise". Per esempio, ha aggiunto, "si sapeva benissimo quale era il campo dei black bloc, ma si è intervenuti soltanto il sabato pomeriggio, quando poi se ne erano andati via tutti".

TELEKOM SERBIA:

PROCURA TORINO CHIEDE ARCHIVIAZIONE

La Procura di Torino ha chiesto nuovamente al gip l'archiviazione dell'inchiesta su Telekom Serbia.

L' indagine era stata aperta nel 2001 con le ipotesi di reato di corruzione e falso in bilancio a carico dell'ex amministratore delegato di Telecom Italia, Tomaso Tommasi di Vignano e dell'ex dirigente del gruppo, Giuseppe Gherarduzzi.

Il procedimento si riferisce all'acquisto, avvenuto nel 1997 da parte di Telecom Italia, di una quota della compagnia telefonica jugoslava. L' ipotesi su cui hanno indagato il procuratore di Torino, Marcello Maddalena e il suo aggiunto, Bruno Tinti, era che vi fosse stato il pagamento di tangenti.

I due magistrati avevano già chiesto al gip l'archiviazione nel luglio scorso, facendo però presente che non avevano potuto completare gli accertamenti e per questo ottennero una proroga.

In novembre il gip Francesco Gianfrotta stabilì che le indagini potessero proseguire fino per consentire ai pm torinesi di avere l'esito di alcune rogatorie all'estero.

Un filone a sé in questa inchiesta è quello che riguarda Igor Marini, il procacciatore d'affari che affermò di essere a conoscenza di tangenti a sacerdoti e politici di centrosinistra e che per questo è stato indagato per calunnia. Il fascicolo d'indagine su Marini è ancora aperto.

AFGHANISTAN:

KARZAI VUOLE SBARAZZARSI DELLE ONG

Il governo afgano è sempre più in difficoltà: al di fuori di alcune zone della capitale Kabul non controlla nulla, la produzione di oppio è aumentata di otto volte rispetto a quando al potere c'erano i talebani, gli attentati si moltiplicano. Ed ecco che il presidente fantoccio Karzai non trova meglio da fare che accusare le organizzazioni non governative (Ong) di ostacolare lo sviluppo delle imprese locali e di sperperare e rubare i fondi stanziati per la ricostruzione del Paese.

Secondo Karzai, "molte Organizzazioni non governative sono corrotte e sprecano denaro. Il governo afgano, da oggi dovrà essere meglio informato sul lavoro quotidiano di queste aziende e dovrà svolgere un ruolo più significativo nel processo di sviluppo".

Stando a fonti locali Karzai avrebbe già pronta una norma di legge molto dura nei confronti del volontariato che, a questo punto, sta diventando una presenza scomoda anche per le continue denunce che proprio dalle Ong in Afghanistan provengono proprio a proposito della corruzione del governo Kharzai.

AFHGANISTAN (2):

PRIMA DONNA SERIAL KILLER

Una donna afghana di 39 anni ha confessato di aver ucciso almeno 27 uomini, quasi tutti tassisti. Nel giardino della casa di Shirin Gul, a Jalalabad, sono stati rinvenuti 18 corpi, altri sei in un terreno di sua proprietà a Kabul. Il corpo del primo marito della Gul è stato inoltre ritrovato sotto il pavimento della casa in cui abitava con il convivente, Rahmatullah, e il figlio 18enne, suoi complici nei delitti insieme ad altre quattro persone. Rischiano tutti la pena di morte.

Shirin Gul è la prima serial killer donna scoperta in Afghanistan. Secondo la sua confessione, il figlio Samiullah o il suo amante erano soliti invitare per un te e un kebab, come vuole la tradizionale ospitalità afgana, il conducente del taxi che li riportava a casa. Ma il kebab conteneva sedativi e la vittima veniva così agevolmente strangolata. La sua vettura veniva poi portata in una città di frontiera con il Pakistan, Miram Shah, dove veniva venduta.

Ignoto il movente della donna e dei suoi complici.

KOSOVO:

DA PREMIER AD IMPUTATO

DI CRIMINI DI GUERRA

Il primo ministro del Kosovo, Ramus Haradinaj, si è dimesso dal suo incarico dopo aver ricevuto l'incriminazione per crimini di guerra da parte del Tribunale penale internazionale dell'Aja (TPI).

Ex capo del gruppo terroristico UCK (Esercito di liberazione del Kosovo) e noto trafficante di droga, Haradinaj era stato inopinatamente nominato a capo del gioverno provvisorio della provincia serba sotto tutela dell'ONU. Impotente, difronte a questa nomina, era rimasta la comunità internazionale che aveva sostenuto la "guerra umanitaria" per la liberazione del Kosovo.

Haradinaj è stato immediatamente trasferito all'Aja, sede del TPI. Con lui c'e' anche un alto ufficiale del Corpo di protezione civile del Kosovo (TMK), la finzione in cui è stato trasferito tuitto l'apparato militare del disciolto UCK. L'ufficiale è Lahi Ibrahimi, 35 anni, cugino di Haradinaj e fra il 1998 e il 1999 suo braccio destro proprio nell'UCK.

Terzo incriminato è Alush Agushi, 46 anni, anch'egli un ex appartenente all'UCK e attualmente detenuto nel carcere di Pristina per crimini di guerra per i quali è imputato insieme a Daut Haradinaj, fratello del premier.

Stragi, rapimenti, attentati, torture: è lungo il dossier su Ramush Haradinaj e comprende ben 108 capi di imputazione, tutti molto pesanti.

Haradinaj era il comandante dell'UCK nella zona di Metohija (Dukadjin in lingua albanese), nel Kosovo occidentale. Era a capo di un gruppo denominato Aquile nere, ritenuto responsabile degli episodi più brutali del conflitto kosovaro. Sarebbero state appunto le Aquile nere a trucidare il 12 giugno del 1998 un numero imprecisato di civili, di etnia rom, che partecipavano a un matrimonio nei pressi della città di Djakovica. Il commando aveva fermato la colonna dei gitani festanti, portandoli tutti in una cantina di un albergo: lì lo stesso Haradinaj avrebbe violentato la sposa - poi brutalizzata da altri miliziani - e torturato i restanti ostaggi. Molti uomini avrebbero subito anch'essi violenze sessuali. Fra le tante atrocità di quella strage: unghie strappate, sigarette spente sulla pelle dei prigionieri, orecchie mozzate fatte poi ingoiare a forza alle vittime. Solo dopo ore di sevizie, i rom sarebbero stati fucilati.

Al premier kosovaro è imputata anche la morte di 40 serbi i cui corpi sono stati ritrovati nel lago di Radonjic (in serbo Radonjicko Jesero) e in alcuni pozzi vicini con addosso evidenti segni di torture. Quelle vittime sarebbero state rapite dalle loro case nel settembre del 1998 e tenute in carceri clandestine attorno al monastero di Decani, prima dell'uccisione.

Sempre Haradinaj è additato come il responsabile di diversi massacri di famiglie serbe avvenuti nell'estate del 1998 nella zona di Glodjan, sua cittadina natale: il bilancio delle vittime era di almeno 20 civili, i cui cadaveri sono stati ritrovati semisepolti in un campo agricolo.

Altra strage che ebbe larga risonanza in Serbia e della quale Haradinaj è ritenuto responsabile, è quella avvenuta a Pec nel dicembre del 1998: una bomba a mano venne lanciata in un caffé della città, il Panda bar, uccidendo sei liceali serbi.

Il dossier sull'ex premier non si ferma qui: anche alcuni albanesi sarebbero stati vittime della brutalità delle Aquile nere. Attribuito ad Haradinaj è il rapimento di quattro sostenitori del moderato Ibrahim Rugova, oggi presidente del Kosovo: i quattro sarebbero morti per le torture subite durante la prigionia. Per quella vicenda, il fratello di Ramush, Daut Haradinaj, è stato condannato nel dicembre del 2002 da un tribunale di Pristina a cinque anni di reclusione: misteriosamente, da quel processo è stata stralciata - e si è persa poi nel nulla - la posizione dell'influente ex capo della guerriglia kosovara.

Un'altra accusa che lega i due fratelli Haradinaj è l'irruzione, nel luglio del 2000, nella casa della famiglia albanese Mussaj, in passato bollata come collaborazionista. Uno degli attaccati venne ucciso, ma gli altri si difesero: una granata ferì gravemente l'ex premier, poi curato in una base militare americana in Germania.

Stando ad inquirenti di parte serba, Haradinaj sarebbe stato il capo dei servizi segreti dell'UCK, implicato nelle operazioni più sporche della guerra.

Su proposta del presidente Ibrahim Rugova, l'ex comandante dell'UCK era stato eletto primo ministro con la maggioranza dei voti del parlamento kosovaro, il 3 dicembre scorso.

Altri tre albanesi, tutti appartenenti al disciolto Esercito di liberazione del Kosovo, sono sotto processo davanti al Tribunale per i crimini di guerra nell'ex Jugoslavia.

La prima udienza si è svolta lo scorso 15 novembre quando nell'aula dell'Aja sono comparsi in manette Fatmir Limaj, 33 anni, Haradin Bala, 57 e Isak Musliu, 34. Tutti e tre sono accusati di "uccisioni, trattamenti crudeli, torture e atti inumani" commessi contro civili serbi e albanesi del Kosovo detenuti in un campo di prigionia della guerriglia albanese a Lapushnik, nella parte orientale del paese.

Musliu e Bala furono imprigionati il 18 febbraio 2003 mentre Limaj, esponente politico di spicco del Kosovo, si consegnò volontariamente alle autorità austriache qualche settimana dopo.

EX JUGOSLAVIA:

EX UOMO DI AL QAIDA

DENUNCIA CRIMINI DI GUERRA MUSULMANI

Ali Hammad, un ex membro della rete terroristica di Al-Qaeda, che ha combattuto a fianco dei musulmani in Bosnia durante la guerra civile del 1992-1995, ha descritto in una lettera aperta al quotidiano serbo-bosniaco Glas Srpske i crimini contro i civili commessi dalla sua unità di mujahedin.

Hammad, che sta scontando 12 anni di prigione nella città bosniaca di Zenica, ha tra l'altro descritto l'attacco al villaggio croato di Guca Gora, dove la sua unità ha combattuto contro le forze internazionali (UNPROFOR): "Quando le forze internazionali si sono rese conto di trovarsi di fronte a dei mujahedin si sono ritirate, lasciando i civili alla mercè di soldati giunti in Bosnia per combattere una guerra santa, una jihad", ha ricordato Hammad, raccontando inoltre che 20 civili croati di Guca Gora sono stati prelevati ed uccisi e tra di loro c'era un ragazzino di 14 anni.

Hammad ha descritto il modo in cui i mujahedin hanno ucciso un civile serbo nel loro campo di Orasac, tagliandogli la testa con un coltello da cucina. Hanno assistito alla scena anche quattro civili serbi che sono riusciti a salvarsi.

Nella sua lettera, Hammad ha detto di essere pronto a testimoniare di fronte al Tribunale dell'Aja per i crimini di Guerra nell'ex Jugoslavia, al processo all'ex comandante dell'esercito bosniaco Rasim Delic il quale, annunciando che si consegnerà al Tribunale la prossima settimana, ha negato qualunque suo coinvolgimento nei crimini commessi dai mujahedin, dicendo che non erano sotto il suo diretto controllo.

I bosniaci serbi e croati, inclusi alcuni servizi di intelligence stranieri, hanno sostenuto per anni che migliaia di mercenari stranieri provenienti dai paesi islamici avevano combattuto a fianco dei musulmani locali, ma le autorità bosniache avevano sempre smentito queste informazioni.

Nella lettera Hammad ha spiegato di essere stato mandato in Bosnia come funzionario di Al-Qaeda, "dopo aver fatto esperienza" in Afghanistan, ma di essere diventato uno strenuo oppositore del terrorismo dopo aver assistito agli orrendi crimini perpetrati in Bosnia e dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. Ha rivelato che il suo quartier generale si trovava vicino al villaggio di Bijela Buca, vicino la città di Travnik, dove i mujahedin hanno rapito e ucciso due stranieri che credevano giornalisti britannici.

Nella lettera Hammad ha indicato le iniziali di sei combattenti mujahedin che avrebbero commesso questo crimine: due algerini, un saudita, un libico, un tunisino e un egiziano.

Fonte: AKI

MEDIORIENTE:

I LEGAMI DELLA JIHAD ISLAMICA

IN SIRIA E IN IRAN

(SECONDO ISARELE)

Una organizzazione relativamente piccola, ma composta da professionisti molto motivati, legata a potenze estere e dunque particolarmente insidiosa.

Così Israele descrive la Jihad islamica palestinese, l'organizzazione che ha rivendicato la paternità dell'ultimo attentato suicida a Tel Aviv (5 morti israeliani, 50 feriti) e che è sospettata di aver confezionato l'autobomba con 500 chilogrammi di esplosivo scoperta il 4 marzo scorso ad Arrabe (Cisgiordania).

Secondo l'intelligence militare di Israele - che si basa fra l'altro su documenti sequestrati in Cisgiordania nel corso di successive incursioni militari - la Jihad islamica si avvale del sostegno di Siria ed Iran e di legami operativi con gli Hezbollah libanesi. Lo stesso simbolo delle Brigate al-Quds (il braccio armato della Jihad islamica) ricorda molto da vicino nella grafica quello dei guerriglieri filo-iraniani Hezbollah.

Israele sostiene che in territorio siriano la Jihad islamica disponga di comandi, uffici, mezzi di combattimento e anche basi di addestramento militare. La Siria "mente" - secondo l'intelligence di Israele - quando afferma che nel proprio territorio ci sono solo uffici politici della Jihad islamica. Dal suo ufficio di Damasco il leader della Jihad islamica, Ramadan Shallah, "progetta e ispira attentati", aggiunge l'intelligence di Tel Aviv, anche sulla base delle confessioni rese da due prigionieri: Ali al-Saadi e Thabet Mardawi, due "importanti terroristi" catturati due anni fa a Jenin (Cisgiordania).

Ma se la Siria e il Libano sono utilizzate per l'organizzazione di nuove operazioni, sarebbe l'Iran che provvede alle necessità materiali dell'organizzazione di Shallah, sostengono i servizi segreti israeliani.

L'Iran rappresenta la principale fonte di finanziamento della Jihad islamica, secondo quanto risulta in Israele. Si tratta di diversi milioni di dollari all'anno che sono utilizzati per finanziare le infrastrutture logistiche e paramilitari dell'organizzazione.

Solo in piccola parte - secondo Israele - questi fondi vengono devoluti anche alle organizzazioni sociali che fiancheggiano la Jihad islamica, come le associazioni di assistenza sociale Al-Ahsan e Al-Nakaa che si occupano,fra l'altro, dell'assistenza alle famiglie dei "martiri" caduti negli attentati contro Israele.

GIAPPONE: IL FENOMENO DEI SUICIDI VIA WEB

Non si arresta la catena di suicidi collettivi in Giappone concordati e organizzati su siti internet. L'ultimo episodio il 30 marzo scorso quando cinque giovani sui 20 anni, quattro ragazzi e una ragazza, sono stati trovati cadaveri su un'auto posteggiata in una strada poco frequentata nella città di Takashima, prefettura di Shiga, vicino a Kyoto.

I cinque giovani erano riversi sui sedili ribaltati. Nella parte posteriore dell'auto c'era una stufetta per barbecue con carbonelle consunte e le portiere erano sigillate. Una scena tipica di suicidio collettivo per asfissia.

Il fenomeno dei suicidi collettivi, soprattutto di giovani, attraverso il reclutamento di aspiranti alla morte volontaria su siti internet, sta affliggendo il Giappone dal 2003, in un clima di apparente impotenza delle autorità di fronte al ripetersi dello stesso meccanismo di spinta al suicidio, soprattutto tra i giovanissimi, esercitato dai numerosi siti internet.

Le ultime cinque morti portano a ben 37 le vittime in 10 casi nei primi tre mesi del 2005. Si tratta di un'accelerazione impressionante, se si pensa che nell'intero 2004 i casi erano stati 19, con 55 morti  e nel 2003 i morti erano stati 34 in 12 casi.

Paese da sempre con un alto tasso di suicidi, il Giappone dei giovani ha cominciato a scoprire l'attrazione della morte volontaria di gruppo tramite Internet dopo che, l'11 febbraio 2003, tre giovani, due ragazzi di 24 anni e una ragazza di 22, si lasciarono asfissiare in auto nella prefettura di Saitama, una serie interminabile di città satelliti-dormitorio della metropoli di Tokyo, dove più di altre si avverte acutamente l'assenza di relazioni sociali.

Da allora proliferano i siti per aspiranti suicidi, dove ci si scambia liberamente informazioni sui posti e sulle tecniche migliori per morire assieme.

"Cerco ragazzi che vogliono morire con me nel tal giorno, nel tal posto e a questo modo" è il tema ricorrente delle decine di avvisi che compaiono giornalmente su questi siti. Uno di questi siti avrebbe ben 8.500 iscritti.

Il Giappone ha il tasso di suicidi più alto tra i paesi industrializzati, 24,1 per 100.000 abitanti . Nel 2003 il numero di morte volontarie ha raggiunto la cifra record di 34.427, più o meno lo stesso numero degli Stati Uniti che hanno però una popolazione doppia del Sol Levante.

Fonte: ANSA

ALBANIA:

670 FAMIGLIE AUTORECLUSE

PER IL CODICE DELLA VENDETTA

Il secolare codice della vendetta (Kanun) continua a restare in vigore nell'Albania del Duemila e in questo momento 670 famiglie nel nord del Paese vivono chiuse in casa 24 ore al giorno, in una condizione di vera e propria autoreclusione per sfuggire alla morte.

Il dato è contenuto nell'ultimo rapporto del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani in Albania.

Secondo il rapporto, il fenomeno coinvolge anche donne e bambini, esposti come gli uomini al rischio della vendetta nonostante lo stesso Kanun lo proibisca. Almeno 160 bambini nell'età della scuola dell'obbligo sono stati costretti ad abbandonare le lezioni, ma la cifra reale è probabilmente più alta: lo stesso ministero dell'Istruzione si è detto deciso ad affrontare il problema, creando un nucleo di insegnanti con l'incarico di tenere lezioni itineranti nelle varie abitazioni in cui gli scolari sono rinchiusi.

Dei 160 bambini citati nel rapporto, 73 sono considerati "ad altissimo rischio di vendetta".

Il Kanun - che risale al 1400 e che è stato riportato in forma scritta dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha - regola da secoli la vita sociale nelle zone più arretrate dell'Albania, soprattutto nel nord. Fra l'altro il codice fissa in maniera rigorosa il diritto di vendicare l'uccisione di un proprio familiare, colpendo i parenti maschi dell'assassino fino al terzo grado. Il diritto alla vendetta in alcune zone è addirittura considerato un obbligo, pena il disprezzo da parte della collettività e la completa emarginazione e in moltissimi casi si trasforma in una vera e propria faida, con una interminabile catena di delitti.

Il perdono da parte dei parenti offesi è previsto e regolato sulla base di un rigoroso rituale e ha consentito finora a 650 nuclei familiari di tornare in libertà.

In alternativa il solo modo per sfuggire alla vendetta resta quello dell'autoreclusione in casa, luogo ritenuto dal Kanun inviolabile. Spetta ad amici e parenti lontani assicurare loro i rifornimenti alimentari e provvedere a tutte quelle incombenze che impongono un contatto con l'esterno, compresi i pagamenti di bollette o la scelta di un abito da acquistare. Naturalmente nessuno di loro ha la possibilità di lavorare.

Congelato durante i cinquant'anni del regime, il fenomeno della vendetta è riesploso nei primi anni '90, facendo registrare decine di delitti talvolta compiuti per punire uccisioni avvenute prima della seconda guerra mondiale.

Negli ultimi anni molte regole sono state deformate, il Kanun è diventato pretesto per compiere delitti di stampo mafioso, donne e bambini un tempo preservati sono finiti nel mirino e fra le vittime della vendetta finiscono persino agenti di polizia condannati all'autoreclusione per azioni compiute in servizio.

Il ministero dell'Interno ha costituito un'apposita unità incaricata di indagare sugli omicidi provocati dalla legge della vendetta e che lo scorso anno sono stati dieci. A differenza di quanto prescrive il Kanun che lo considera legale, l'omicidio per vendetta è in realtà trattato dal codice penale albanese al pari di qualunque altro fatto di sangue senza alcun tipo di attenuante.

Ma neppure l'ergastolo riesce ad essere un deterrente sufficiente a placare il dovere della vendetta, per sfuggire alla quale soltanto lo scorso anno 54 famiglie hanno scelto di abbandonare l'Albania.

Fonte: ANSA

DOCUMENTAZIONE

TERRORISMO ITALIANO:

IL MEMORIALE LETTO IN AULA

DA LAURA PROIETTI

"Nell'interrogatorio del 26 febbraio scorso al Gip di Santa Maria Capua Vetere ho già ammesso la partecipazione alle BR, all'omicidio del professor D'Antona ed alla rapina di Siena. In questa sede ribadisco la mia responsabilità per tali fatti e più in generale per tutti gli altri reati che mi vengono contestati".

Comincia così il memoriale che Laura Proietti ha letto nell'Aula Vittorio Occorsio del Tribunale di Roma di fronte al Gup Luisanna Figliolia.

"All'epoca - afferma ancora la Proietti - ritenevo che la lotta armata fosse l'unica alternativa possibile  per opporsi ad un sistema politico ed economico responsabile, secondo me, delle profonde ingiustizie che caratterizzano la realtà sociale. Per questo ho condiviso le convinzioni politiche dell'organizzazione e in particolare ho condiviso anche la scelta di ricorrere all'omicidio politico come forma estrema di lotta e di ciò, come ho detto, me ne assumo tutta la responsabilità".

E' a partire dall'attentato a Massimo D'Antona, avvenuto il 20 maggio del '99, che la Proietti mette in discussione le proprie "precedenti certezze" e che comprende che "un conto erano le parole e le teorizzazioni politiche, un altro erano i fatti e la loro drammatica realtà".

Inizia per questo il suo progressivo allontanamento dall'organizzazione e questo processo si conclude con la rapina di Siena, avvenuta nel dicembre del '99.

Nel documento della Proietti c'è anche una difesa dei suoi compagni Alessandro Costa e Federica Saraceni. "Aggiungo che oltre alla responsabilità per quanto ho commesso, ho anche quella di avere coinvolto involontariamente - si legge - altre persone attraverso le telefonate che ho fatto loro con Stp (le schede telefoniche, ndr) che mi vengono attribuite e che utilizzavo normalmente anche e soprattutto per i miei rapporti personali. Ad esempio, le telefonate con Alessandro Costa, sebbene non sia in grado di ricordarne il contenuto, certamente non riguardavano la mia appartenenza alle BR, cosa che egli neanche sospettava, al pari di tutti i miei amici e familiari. Quanto invece a Federica Saraceni ero legata a lei oltre che da un rapporto d'amicizia, anche da un rapporto politico, nel senso che discutevamo degli NCC, verso i quali lei aveva mostrato interesse in un certo periodo, che non sono in grado di precisare con esattezza, ma certamente era precedente alla decisione di ricorrere all'omicidio politico. Naturalmente abbiamo continuato a sentirci per rapporti di amicizia, ma molto più saltuariamente. A proposito dell'utenza cellulare che le viene attribuita, ricordo anche di averle prestato, forse più volte, un telefono cellulare di cui aveva bisogno per sue ragioni personali: non ricordo ovviamente né il numero dell'utenza, né il periodo in cui glielo detti, ma è certo che esso non era in uso all'organizzazione o almeno io non lo sapevo, perché altrimenti non glieloavrei mai prestato".

La conclusione della lettera della Proietti è in qualche modo rivolto alle famiglie delle vittime: "Avrei altre cose da aggiungere, quel che sento e che provo - scrive la Proietti - ma non credo che sia questa la sede ed il momento opportuno per farlo in quanto non vorrei dare l'impressione di voler speculare, anche involontariamente, sul dolore degli altri e sul mio dolore".

COSA NOSTRA:

CHI E' BERNARDO PROVENZANO,

L'UOMO DAI MILLE MISTERI

Maglioncino a girocollo nero, viso scavato, ma più giovanile rispetto alle foto precedenti: è il nuovo identikit della primula rossa di Cosa nostra, svelato il 7 marzo scorso nel corso di una improvvisata conferenza stampa dal procuratore di Palermo, Pietro Grasso, dal direttore centrale della polizia anticrimine, Nicola Cavaliere e dal questore di Palermo, Giuseppe Caruso.

Ma Bernardo Provenzano, il boss incontrastato della mafia, vero acrobata della clandestinità, è ancora un uomo senza volto, latitante da più di quarant'anni e cercato invano dai reparti speciali di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

L'ultima foto segnaletica risale al 17 settembre 1958, quando fu fotografato nella caserna di Corleone (Palermo), il suo paese natale, dopo avere rubato sette quintali di formaggio insieme con altri complici. Ma in carcere Binnu, questo il suo nomignolo, rimase solo pochi giorni. Da allora, non esistono altre foto del boss, ma solo descrizioni fatte da uomini d'onore che poi diventano "collaboratori di giustizia".

Come Antonino Giuffrè, il suo ex braccio destro, finito in carcere tre anni fa, che ha parlato a lungo ai magistrati di Provenzano. E' proprio Giuffrè a descriverlo come un uomo "firrignu", cioé forte, "capace di dormire per più notti nel sacco a pelo". Non solo. E' il nuovo pentito di mafia che ribadisce ai magistrati la strategia numero uno del boss: "Non usa telefoni perché sa che ogni segnale potrebbe svelare il suo nascondiglio".

Così, Provenzano, per dirigere i suoi affari miliardari usa i cosiddetti "pizzini", cioé i bigliettini di carta mandati ai destinatari da uomini fidati.

Alcuni, però, forse per paura, decidono di "tradirlo". Come ha fatto, nei giorni scorsi, Mario Cusimano, finito in carcere nella retata del 25 gennaio scorso, quando vennero arrestati decine di gregari del boss latitante. Fin dal primo momento, Cusimano ha deciso di saltare il fosso e collaborare con i magistrati che, proprio in questi giorni, lo stanno ascoltando.

Nel gergo mafioso, Cusimano è considerato un "pesce piccolo", ma sarebbe stato proprio lui a raccontare ai pm che si occupano della cattura di Provenzano, del viaggio compiuto in auto dal latitante nel 2003 dalla Sicilia fino in Francia, a Marsiglia, per sottoporsi a un delicato intervento chirurgico alla prostata.

Un'operazione andata bene e che potrebbe essere persino stata rimborsata in pieno dall'Asl 6 di Palermo. Ed è quello che stanno accertando i magistrati che, nei giorni scorsi, hanno sequestrato montagne di carte per scoprire se effettivamente, Provenzano -  che si fece ricoverare sotto il falso nome di Gaspare Troia - avesse fatto domanda alla regione per ottenere il rimborso dell'operazione.

L'ultimo contatto tra le forze dell'ordine e Provenzano risale al 9 maggio del 1963, quando il boss venne convocato nella caserma dei carabinieri di Corleone per accertamenti, e quella fu l'ultima volta che i militari videro il volto del boss dei boss.

Di lui si perdono definitivamente le tracce il 18 settembre del '63, quando i Carabinieri lo denunciano per la strage in cui persero la vita Francesco Streva, Biagio Pomilla e Antonio Piraino. Inizia quel giorno la lunga, interminabile latitanza di Bernardo Provenzano che dura sino ad oggi.

A dire il vero, le forze dell'ordine, diverse volte, sono state vicinissime all'arresto della primula rossa, ma come sempre, è riuscito a farla franca. Come quel 31 gennaio del 2001, quando la Polizia bloccò Benedetto Spera, il suo braccio destro di allora, in una masseria di Mezzojuso, nel palermitano. Provenzano era lì a pochi passi, in attesa di essere visitato da un medico a causa delle sue cattive condizioni di salute. Ma riuscì a sfuggire, per l'ennesima volta.

La carriera criminale di Bernardo Provenzano comincia negli anni Cinquanta, quando insieme con Salvatore Riina, altro boss ma finito in carcere nel '93, diventa il più fidato luogotenente di Luciano Liggio, allora capo incontrastato di Cosa nostra nel corleonese. Di lui Liggio diceva "Spara come un Dio, ma ha il cervello di una gallina", una definizione che Provenzano smentirà con il passare degli anni. Il boss approda ai vertici di Cosa nostra all'inizio degli anni Ottanta, solo dopo avere fatto uccidere tutti i boss rivali.

Sono state diverse le strategia usate dal capo di Cosa nostra per gestire gli affari della mafia. L'ultima, quella indicata dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffré, è quella della moderazione con l'infiltrazione costante nelle istituzioni, piuttosto che l'attacco frontale, come accadeva in passato.

Sono tanti i "pentiti" a ripetere la stessa litania: "Binnu u tratturi tiene in mano tutti gli appalti e i rapporti con i politici".

Ma i "pentiti", malgrado le descrizioni fin troppo minuziose, non sono ancora riusciti ad indicare ai magistrati il posto in cui Bernardo Provenzano trascorre la sua latitanza. Quello che si sa è che ha subito due interventi di prostata e che, per questo, è costretto a rivolgersi a medici per visite specialistiche.

Le indagini sulla cattura della Primula rossa continuano a parlare di un "boss malato". Ma che riesce, comunque, a farla sempre franca.

EX JUGOSLAVIA:CHE COS'E' IL TRIBUNALE PENALE DELL'AIA

Il caso del premier kosovaro Ramush Haradinaj è uno dei molti su cui il Tribunale penale internazionale (Tpi) ha dovuto e dovrà esprimersi. Di seguito fatti e numeri dell'attività della corte, fondata nel 1993 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

- Più di 150 imputati in maggioranza serbi, ma anche croati e musulmani sono stati incriminati negli ultimi 10 anni

- A fine febbraio i sospetti sotto detenzione erano 51; 14 sono stati messi in libertà condizionata sino al processo.

- Nove imputati sotto processo, compreso l'ex presidente serbo Slobodan Milosevic, primo capo di stato messo sotto accusa per crimini di guerra.

- Tra i numerosi processi in corso, molti vedono coinvolti ribelli musulmani come Fatmir Limaj, uno dei capi del disciolto Esercito di liberazione del Kosovo (UCK); Naser Oric, il comandante delle forze musulmano bosniache nell'area di Srebrenica e Sefer Halilovic, ex comandante dell'Armija Bosnia (esercito bosniaco).

- I giudici hanno per ora emesso 55 verdetti, di cui due assoluzioni.

- Le condanne più rilevanti: 11 anni comminati a Biljana Plavsic, ex presidente della Republika Srpska e 35 anni al gen. Radislav Krstic, per il genocidio di Srebrenica (1995). Goran Jelisic, soprannominato l'Adolf Serbo, sta invece scontando 40 anni di reclusione. L'unica condanna a vita è stata pronunciata nei confronti di Milomir Stakic, che tuttavia ha fatto ricorso.

-       Diciassette imputati sono ancora in libertà. Tra questi Radovan Karadzic e Ratko Mladic, accusati del genocidio di Srebrenica, e Ante Gotovina, la cui latitanza sta minando le possibilità di ingresso della Corazia in Unione Europea.

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